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voce di poeta

Non lo so, forse può sembrare triste che l’Oblò saluti (per poche settimane, ad agosto sarò già qui – fuori forma come sempre, starei per dire…) con un lutto. Perché ieri è morto Valentino Zeichen e io non ho mica voglia di parlare di altro oggi. Però non è solo triste, secondo me. Anzi, a pensarci bene, non è per niente triste. Perché è proprio quando un poeta muore che resta la sua voce, mi viene da dire. Perché è nella morte dell’autore (che questa volta è proprio solo poeta, badate bene, nient’altro, in nessun modo, né scrittore né intellettuale né capopopolo, soltanto e semplicemente poeta), è proprio nel suo addio quasi improvviso che le sue poesie possono riacquistare vita, rifarsi sangue e carne, voce vivida e vivace, rumore di passi, respiro improvviso dietro un angolo della via. Può darsi che non sia triste, quindi: io lo spero.

 

E mi piace pertanto ricordare Valentino Zeichen, usando per esempio le parole usate ieri da Valerio Magrelli, che lo amava e lo conosceva e ne è stato un attento lettore (ben più di me, distratto lettore di poesie fin dall’adolescenza, anche di quelle di Zeichen). Magrelli scrive così:

 

Inizia a prendere forma il nostro Zeichen. Grazie a una simile biografia (vicina a quella del regista François Truffaut), autore e personaggio si sovrappongono. Con la sua tipica andatura militar-svagata, protetto dalla corazza anagrafica dell’alter ego, l’incongruo hidalgo riesce a intrecciare le origini austro-ungariche alla romanità imperiale. I sandali ascetici, la “casa-baracca” nei pressi di piazza del Popolo (autentico ossimoro sociologico), lo sdegnoso, “spagnolesco” rifiuto di qualsiasi lavoro, i violenti attacchi alla civiltà dei consumi, hanno fatto il resto (pressoché leggendarie le sue campagne contro la musica e contro i detersivi). Ma tutto ciò sarebbe stato solo pittoresco, senza una scrittura inconfondibile.

 

Oppure, quasi meglio, furono commoventi le parole che scrisse Giuseppe Rizzo qualche mese fa, la prima volta che Zeichen si sentì male. E Rizzo scrisse così:

 

Voglio dire: chi se ne frega della poesia in un mondo rotto da mille emergenze e priorità? Chi se ne frega della poesia se abbiamo già romanzi serie tv fumetti tweet post video e realtà aumentate che riempiono le nostre teste? Chi se ne frega della poesia se in metà del paese, la metà a sud di Roma, solo un terzo delle persone ha letto un libro in un anno? Chi se ne frega della poesia se nelle biblioteche italiane in media c’è posto per quattro persone ogni mille abitanti? Chi se ne frega dell’albero di nespole nel giardino quando la casa sta andando a fuoco? Una possibile risposta io l’ho trovata nei versi di Valentino Zeichen.

Zeichen è l’ultimo degli irregolari del nostro tempo e come ogni irregolare la sua potenza è esserne testimone ed estraneo, facendo una cosa che solo le grandi voci sanno fare: cogliere le bizze del presente, smontarle nei dettagli che sfuggono alla maggioranza delle persone e intanto echeggiare storie volti e armonie di mille anni prima.

 

Così come è bello prendere atto, per una volta, che pochi anni fa Zeichen ha visto uscire per Mondadori la raccolta completa delle sue poesie: non è morto dimenticato o ignorato, insomma, non del tutto. È una cosa importante per noi, più che per lui. Ci dice che siamo ancora qui, con la possibilità di leggere dei versi di un uomo che ha sempre vissuto ai margini del nostro mondo, guardandolo e capendolo mentre noi semplicemente lo correvamo e percorrevamo; un uomo talmente irrregolare da non avere nemmeno un compleanno, da non aver mai rivelato il suo vero nome, magari da non ricordarlo neppure più. Un uomo e poeta talmente al di fuori delle logiche con cui siamo abituati a descrivere uomini e poeti che di lui Antonio Gnoli ha potuto dire così, in occasione dell’ultima intervista a Zeichen di cui io abbia trovato traccia:

 

Nell’universo di Valentino Zeichen non c’è posto per la grazia. Il poeta non è una creatura speciale, ispirata, palpitante. È una persona che prevalentemente vive immersa nel conflitto.

 

Le poesie, quindi. Ne trovate una qui, che parla di cuore e di insufficienza cardiaca, non potevo certo passarla sotto silenzio, come ben immaginate. E le trovate tutte nel volume della Mondadori, citato sopra. Ma una delle mie preferite la trovate su quest’altra pagina, nemmeno da sola. È breve, parla di guerra e di quello che resta da fare ai poeti, e dice così:

 

Al cucciolo
 

Scoppierà la guerra
e noi ci arruoleremo
nei soldatini di piombo
sotto l’arco di trionfo;
sfileremo alla berlina
dietro l’ampia vetrina
d’una antica cartoleria.
Amore, pazienta che
metta a letto la poesia.

 

Ecco, non è triste salutarsi con un lutto e con le parole di un poeta le quali, morto il poeta, cominciano, lente e instancabili, a percorrere la loro strada. Anzi, è un bellissimo augurio per il futuro, salutarsi così.

 

[Come avete intuito, l’Oblò entra in una pausa di alcune settimane. Ci rivediamo in agosto, quando saremo pochi su queste pagine e ci faremo compagnia ancora più volentieri. E speriamo di avere sempre poeti e poesie con cui riconoscerci, come oggi.]

Davide Profumo
Davide Profumo
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