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vittime di altre vittime

Avrei voluto parlarvi di un bel libro di poesie che sto leggendo, oggi (lo farò, un’altra volta, non me lo lascerò sfuggire); oppure di un regista balcanico che forse stiamo dimenticando con troppa fretta; o anche di uno scrittore che amo tantissimo ma su cui vi ho paura di avervi troppe volte già stancato; o ancora di un bel libro che riguarda me, insegnante di letteratura, e i miei colleghi, e tutti i miei studenti, piccole facce su uno schermo diviso in ventisette minuscoli riquadri…

Ma mi ha tradito la curiosità, come mi accade spesso (o forse era ben altro, chissà). E la mia curiosità è stata catturata da una raccolta di articoli di cronaca nera che forse non sono proprio «poesia» (come dice l’autore del post a cui mi sto riferendo, che trovate qui) ma di certo sono letteratura. Perché quando si è letterati, quando si è narratori, quando si è malinconici sceneggiatori di un’attesa interminabile, che termina con un sorriso nel buio, qualunque cosa diventa letteratura, anche il più brutale degli omicidi, qualunque cosa diventa «valore per il mondo». E segnalo quindi questo libro che raccoglie articoli di giornale di Dino Buzzati, a proposito di omicidi e di morti e di tragedie locali, di cui trovate una bella descrizione qui:

“Sono entrato nella casa della strage”, prima pagina, 6/7 dicembre 1946. Si riferisce all’eccidio compiuto otto giorni prima da Rina Fort, che massacra a colpi di spranga la moglie e i tre figli – sette e cinque anni, il terzo pochi mesi – del proprio amante, il siciliano Giuseppe Ricciardi, detto il “Magliaro”. Buzzati riesce dunque a entrare nel povero appartamento al numero 40 di via San Gregorio, dopo che Rina aveva confessato e tutto era stato ripulito. Ma c’è ancora un pentolino nell’acquaio della cucina, il fondo sporco di purè, nel quale sbatte la goccia che esce dal rubinetto. Tic, tic, tic, l’unico suono nella casa buia, osserva Buzzati. Poi riferisce del brusio di curiosi che dalla strada guardano le finestre sprangate, degli orologi (uno con una damina in ceramica, l’altro in finto bronzo ornato da una biga) fermi alle 6,40. Nella camera di là, finita sotto un mobile, la lettera che Giovanni, il ragazzino più grande, stava scrivendo ai nonni, prima di andare a letto. “Caro nonno, vi baccio forte, vostro nipote Giov…”.

Ma anche, stamattina, mi ha tradito una donna, come può capitare. E mi ha fatto rinunciare a scrivere di Edipo, per esempio, citando un articolo complesso, caotico, ma pieno di idee e di spunti interessanti (questo qui). Ma la donna è Elsa Morante, e davanti a lei, alle sue isole e alle sue storie, tutto tende a svanire. Ne trovate qui un calibrato ritratto, grazie alla tastiera (un volta era «la penna»…) di Matteo Moca, che la racconta con equilibrio e passione e vi farà tornare (come ha fatto a me) il desiderio di prendere in mano i suoi romanzi, di aprili a caso, di correre a comprarli se ancora non li avete letti tutti; perché quella di Elsa Morante è stata una voce insostituibile nel panorama letterario del secolo, di cui Matteo Moca scrive così:

Questo significa investire la scrittura di un valore importante, prendere sulle spalle il peso della Storia che diverrà protagonista degli ultimi due romanzi, quella che travolge le donne e gli uomini trascinandoli nel fallimento e senza alcuna possibilità di salvezza: «Al romanziere, come ad ogni altro artista, non basta l’esperienza contingente della propria avventura, la sua esplorazione deve tramutarsi in un valore per il mondo.» ha scritto Morante. Questo non significa però elaborare un’opera segnata dalla disperazione perché nelle poesie del Mondo arde il fuoco della speranza e il desiderio di rivolgersi a un pubblico composto non solo da intellettuali, ma anche da bambini, sognatori e analfabeti (quelli della celebre citazione di César Vallejo che apre il romanzo La Storia, «Por el analfabeto a quien escribo», «All’analfabeta per cui scrivo») e si trova anche la forza di una scrittrice che rifiuta il potere e sta dalla parte delle vittime della Storia…

Sono due libri, questi a cui ho accennato oggi, che parlano di vittime e di carnefici insomma. Vittime dell’esistenza, vittime di altre vittime, carnefici e vittime di se stessi, carnefici di altri carnefici, vittime della storia con la S più o meno maiuscola. Quindi non era solo curiosità, la mia. Quindi era anche (ancora) un po’ di misera vocazione alla letteratura… Visto che è di noi, in quanto vittime e in quanto carnefici, che la letteratura non ha mai smesso di raccontare.

 

Davide Profumo
Davide Profumo
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