Ho letto ieri (e mi piacerebbe molto ricordarmi dove…) che in fondo la letteratura italiana è nata dall’esigenza di raccontare due viaggi. Il primo, narrato in versi, fu il viaggio nell’aldilà cristiano compiuto da un uomo in esilio, senza città a cui tornare, che si chiamava Dante Alighieri; il secondo, raccontato in prosa, fu quello di un giovane che andò e ritornò dal lontanissimo Oriente, portando con sé storie di città, strade, uomini, visioni di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima. Si chiamava Marco Polo ed era partito da Venezia e a Venezia voleva sempre ritornare.
[Lo scrisse perfettamente, molti secoli dopo, Italo Calvino, che Marco Polo parlava sempre di Venezia, anche quando parlava di altro. Disse così: «Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta, Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città, – insisteva. Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante… – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: -Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. – Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo. – Venezia, – disse il Kan. Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.]
Ma anche il primo viaggiatore, bisogna ricordarlo, quelo che cantò l’Aldilà cristiano in strofe tripartite, non manco di descrivere Venezia, in una delle scene più belle e memorabili del suo basso inferno (Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani, / ché navicar non ponno – in quella vece / chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più vïaggi fece; / chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi e altri volge sarte; / chi terzeruolo e artimon rintoppa -: / tal, non per foco ma per divin’arte, / bollia là giuso una pegola spessa, / che ’nviscava la ripa d’ogne parte). E morì in una notte di settembre, quel poeta senza città a cui tornare, proprio mentre tornava da Venezia, che aveva visto per l’ultima volta e che fu forse l’ultima città che vide, anche lui.
A questo ho pensato oggi quando ho letto uno strano articolo su una ricorrenza del calendario rock di questi giorni; e a questo ho pensato quando ho letto l’infuocata (giustamente infuocata…) intervista rilasciata da Tiziano Scarpa a proposito di Venezia ferita dalle grandi navi da crociera, dal turismo di massa, dalla ferocia ignorante del muoversi senza sosta e senza consapevolezza… Ho pensato a Venezia, a ciò che è stata nella storia della nostra bellezza e a ciò che potrebbe forse un giorno diventare (provò a raccontarlo Antonio Scurati in un libro di qualche anno fa, che mi piacque molto). Ho pensato che in qualche modo Venezia sta così al centro della nostra storia letteraria (nostra, intendo, italiana; quella che ci fu molti secoli prima che ci fosse l’Italia stessa…) che siamo anche noi, come Marco Polo e Dante Alighjieri, ancora appesi al suo destino. E le sue ferite sono, forse, solo le nostre ferite, rese visibili dalla sua fragilità.
Ma ci ho pensato anche perché nel frattempo ho avuto la gioia di leggere un’altra breve storia, quella di un antico editore. Che fu veneziano anche lui e anche lui, dalla città fragile dei nostri ricordi fragili, seppe inventare un pezzo della nostra storia letteraria, senza scrivere niente se non una sentenza, festina lente «affrettati con lentezza». C’è una splendida storia di Aldo Manuzio, oggi sul web. Vi consiglio di non perdervela, perché tiene insieme cultura, arte, progresso, tecnologia, fragilità, futuro e bellezza. Dice così, a un certo punto:
A Manuzio dobbiamo nientemeno che l’indice, la numerazione a fondo pagina, il corsivo (introdotto con la sua edizione delle epistole di Santa Caterina), la straordinaria innovazione del volume tascabile e quello che si considera ancora oggi il più bel libro stampato al mondo, l’Hypnerotomachia Poliphili. È un mondo di pubblicazioni le cui proporzioni oggi fanno sorridere, nel quale il numero dei lettori era tale da augurarsi di esaurire 1000 copie in alcuni anni, ma che vide Manuzio ed eredi i protagonisti d’un immenso progetto culturale, di cui ancora oggi gli studiosi riconoscono ammirati l’audacia ideale, come ben sintetizza Natale Vacalebre: “Una cosa, innanzitutto, bisogna riconoscere: Aldo aveva coraggio. Il coraggio di rimettere in discussione la propria esistenza umana e professionale, di scommettere su determinate scelte culturali, di mettere da parte – all’occorrenza – i propri ideali intellettuali, senza mai venir meno però a quell’«amore grandissimo verso tutta l’umanità» che sempre contraddistinse la sua intima personalità. Egli non ne fece mai mistero, anzi. Già a partire dalla sua prima fatica editoriale, Aldo volle mettere in rilievo come l’origine di quella impresa così nuova e “inconsueta” per uno studioso, non risiedesse nella ricerca di ricchi guadagni, bensì in una sorta di chiamata, di necessità culturale che comportava la messa a disposizione delle sue energie e conoscenze in favore del genere umano.”
Mi è piaciuta molto quest’idea del coraggio di Manuzio; mi ha fatto tornare in mente un altro bell’articolo scritto su di lui da Giovanni Papi, qualche anno fa (l’ho ritrovato, sta qui; e si chiude così: «Aldo Manuzio capì che il libro è una cosa che ci si può portare pure a letto e leggere al buio, illuminati da una piccola luce, mentre intorno tutti gli altri dormono e nessuno fa rumore»); e poi mi ha fatto pensare che probabilmente, oggi come ieri, Venezia ha bisogno di nuovo del nostro coraggio, come ne ebbe di quello di Marco ,di Dante e di Aldo, molti secoli fa. E che sarà necessario avere molto coraggio per difendere la fragilità di Venezia dal mondo che preme, dalle esigenze del contemporaneo, dalle navi che sbattono sulla riva, dalla folla di queli come noi che se la vogliono divorare… E se per caso vi stesse venendo in mente che Venezia è soltanto una metafora di qualcos’altro e che non è davvero di Venezia che stiamo parlando, proprio come accadeva al Marco Polo di Italo Calvino… Be’, sì, mi sa che avete una parte di ragione.