alle origini della nostra lingua
14 Maggio 2018prima di finire al macero
20 Maggio 2018A volte, per capire chi siamo, basterebbe capire come guardiamo chi è diverso da noi.
E lo so che è facile pensare subito al nostro rapporto con alcuni esseri umani di etnia differente dalla nostra, di provenienza africana o mediorientale, di patrimonio assai meno consistente del nostro, di epidermide pigmentata in maniera non identica alla nostra. Ma in verità si può andare un po’ oltre questo primo passo. Si può pensare a come guardiamo al passato, per esempio, e agli uomini che lo hanno vissuto; o a come accettiamo la presenza di altri (profondamente altri) a cui piacciono cose assai diverse da quelle che piacciono a noi, che desiderano desideri lontanissimi dai nostri, che magari votano partiti opposti a quelli che votiamo noi e che quindi chiamiamo e pensiamo come «barbari»… Ed è vero che è in queste differenze (e in come le «sopportiamo», mi pare la parola giusta) che veniamo in parte definiti da chi ci sta intorno, che noi stessi definiamo quelli che stanno intorno a noi, e che da soli definiamo il nostro sguardo e noi stessi, per l’appunto.
Insomma, volevo dire che ho letto un bell’articolo che riguarda il rapporto che noi uomini, apice della catena alimentare da qualche secolo (non di più, ben poco tempo…), siamo capaci di avere con gli altri esseri che abitano il nostro pianeta, i quali invece sono spesso parte della nostra catena alimentare. E mi è parso, leggendo questo articolo, di capire alcune cose di noi, del nostro modo di guardare il pianeta Terra, di me che lo abito con voi, che non avevo del tutto messo a fuoco prima di stamattina. E vi lascio un link a questo articolo e anche un estratto, che magari vi invoglierà a proseguire e a leggere il libro di John Berger di cui vi si parla, come credo che farò io:
Oggi nelle città abbiamo eliminato le presenze animali, tollerate solo in forme domestiche, addestrate o decorative. Viviamo una nuova e più profonda solitudine di specie. Questa mancata prossimità […] conduce a una marginalizzazione culturale. Gli unici veri spazi che gli animali continuano ad avere nel nostro immaginario sono quelli che abbiamo concesso loro cooptandoli nello spettacolo. L’antropomorfismo, dicevamo, è antico quanto il pensiero umano. Ma cosa succede se rimane l’unico sguardo che rivolgiamo al mondo simile-dissimile degli animali?
Ma c’è anche un altro spunto che non voglio lasciare indietro oggi. È una piccola idea sulla poesia che mi è piaciuta e che segno qui, a mia memoria (e magari anche a memoria di qualcuno di quelli che ogni tanto passano di qui). Perché in un’intervista rilasciata da Giuseppe Cerbino, che dirige una collana di poesia tra le più interessanti tra quelle che sono ancora pubblicate in Italia, dice alcune parole sul genere «poesia» e sullo scrivere «poesia» che mi sono piaciute molto e che conto di non dimenticare troppo in fretta. Per questo me le appunto qui, per questo vi lascio leggere gli appunti. Perché a volte gli sguardi che abbiamo sugli altri si costruiscono anche così, pesando smontando e ricostruendo le parole con cui li (e ci) raccontiamo; ed è questo che continua, anche in tempi come questi (signoramia…), a fare sommessamente la poesia:
… il termine “poesia” racchiude un “fare” più che un dire. O meglio, un dire che deve essere riconosciuto come un “fare”. Quando il poeta dice, fa, crea. In un tempo in cui siamo abituati a dire e a lasciarci indicare come debbano essere fatte le cose piuttosto che “farle”, l’attenzione alla poesia e ai nuovi poeti diventa quasi necessaria foss’anche per due sole persone che leggono versi. La poesia non è democratica. Essa chiama i singoli – lettori e scrittori – affinché si coscientizzino della loro singolarità. Tutto questo per dirti che, nonostante io non pensi che nascerà un nuovo Dante o un nuovo Ungaretti, ritengo fondamentale diffondere, curare e valorizzare la buona poesia. Che cosa intendo per buona poesia? Intendo una scrittura che apra eventi e generi ad accostamenti semantici inediti. Questo non vuol dire che il poeta debba essere giocoforza “originale”. Penso che il concetto di “originalità” sia il più vecchio tra quelli di cui oggi soffre la poesia e la scrittura in generale. A furia di cercare di essere nuovi si rischia di diventare frusti, ampollosi, cerebrali. Osservo in molti poeti della nuova generazione un lavoro sulla parola anche piuttosto raffinato. Mancano però i contenuti, le esperienze. Preferisco un linguaggio vecchio, con contenuti di spessore, profondi, piuttosto che linguaggi nuovi che poi alla fine dicono le stesse cose, gli stessi disagi.
1 Comment
i disagi rimarranno sempre gli stessi però 🙂