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uno a persona

«Nonostante tutti i nostri progressi medici» diceva il mio amico Jason «il tasso di mortalità è rimasto costante: uno a persona».

Avremmo davvero tutti bisogno di un amico come Jason, che ci ripetesse ogni tanto questa frase. Ne avrei bisogno io, che mi occupo di libri e di insegnare la poesia; ne avreste bisogno voi, che vi occupate di cuore e di disturbi coronarici, anche mortali; ne avrebbero bisogno i vostri pazienti, che troppo spesso vengono a chiedervi di essere semplicemente «salvati», come se la medicina fosse infallibile (e abbiamo invece ben imparato, in questo interminabile anno pandemico, che non è così: niente è infallibile, di ciò che è umano).

Per questo, in omaggio all’amico Jason di cui tutti avremmo bisogno (anche i miei studenti, non voglio dimenticare loro, che sono giovani e proprio per questo possono ascoltare Jason spaventandosi molto meno di me), mi pare utile segnalarvi questo bell’articolo sulla morte (sulla nostra coscienza della morte, a essere precisi) che ho letto stamattina sul web, che è stato scritto da uno psichiatra americano (ed è infatti un articolo molto americano, vi avverto) e che dice alcune cose di cui sia io sia voi, che siete medici, abbiamo secondo me molto bisogno (come ne abbiamo di Jason, appunto).

Per esempio, dice così:

L’osservazione spesso ripetuta di Jason mi ha ricordato che la morte (e la malattia) sono aspetti inevitabili della vita. Ho però l’impressione che in Occidente abbiamo sviluppato una negazione patologica di questo banale dato di fatto. Investiamo miliardi per prolungare la vita con interventi medici e chirurgici sempre più complessi, la maggior parte dei quali viene effettuata nei nostri ultimi anni di vita. Da un punto di vista più ampio, sembra un inutile spreco delle nostre preziose risorse impiegate per la salute. Non fraintendetemi. Se sviluppo un tumore, una malattia cardiaca o uno dei tanti disturbi mortali che ho imparato a conoscere in medicina, voglio subito tutti i trattamenti futili e costosi su cui posso mettere le mani. Attribuisco valore alla mia vita. Come la maggior parte degli esseri umani, metto al di sopra il mantenermi in vita rispetto a quasi tutto il resto. Ma come la maggior parte di noi tendo anche a non considerare il valore della mia vita finché non mi trovo di fronte all’imminente possibilità di perderla.

Ecco, era questo che volevo soprattutto che leggeste. E magari che sobbalzaste (come ho fatto io) a quell’aggettivo che c’è nelle primissime righe, «patologica», riferito alla nostra negazione della morte, alla tendenza che abbiamo a non pensare alla nostra finitezza e limitatezza e fallibilità. E mi pare che questo anno interminabile ci abbia spesso messo di fronte a questa negazione, tutta nostra, a questa incapacità che abbiamo di considerare la morte come parte integrante del vivere. Mi direte voi se mi sbaglio.

Intanto io non vi lascio solo così. Perché a proposito del morire, della coscienza della morte e delle tombe in cui riposeremo, c’è un poeta che non si può non citare ma che in realtà non cita più nessuno (ma in realtà, se mi fermo e ci penso, tutta la poesia non fa altro che perlustrare questo confine tra la vita e la morte, questa linea di cui abbiamo coscienza e che cerchiamo costantemente di non vedere). Il poeta è Ugo Foscolo ed è con lui che vorrei chiudere.

Perché (per non dimenticare mai i miei studenti, canaglie) Foscolo riscuote pochissimo successo nelle mie aule scolastiche: sarà forse che lo leggo alla fine del quarto anno, i ragazzi sono stanchi e scocciati, vogliono solo finire il liceo e andarsene via; sarà che io non sono capace a leggerlo e interpretarlo; sarà lui, che suona lontano e retorico; saranno tutte queste cose messe insieme ed anche altre, ma sta di fatto che Foscolo viene letto male, studiato peggio, dimenticato presto. Ed è un peccato.

E proprio ieri Mario Baudino, che è anche lui poeta di valore, ha spiegato sul web (trovate tutto qui) che è sbagliato che sia così, che dovremmo prestare più attenzione alla poesia di Foscolo, rileggerla meglio, che Foscolo è forse insostituibile nel panorama della letteratura italiana, che è magari il nostro Stendhal e non ce ne siamo accorti, che i suoi sonetti e i suoi Sepolcri sono ancora testi che possono risuonare nel nostro presente e parlarci della nostra vita e della coscienza della nostra morte.

Leggete qui, per esempio:

Ma Foscolo resta. Resta uno di quegli ecrivains de combat che hanno segnato il tempo, prendendo a prestito qui la definizione che fu usata per Stendhal, autore in apparenza molto più vivo nella coscienza dei lettori anche se tutto sommato da lui non troppo dissimile; e pure in questo caso, per nemesi storica, un ecrivain combattente non del tutto estraneo al genere tribunizio che pure miete successi nella nostra contemporanea situazione editoriale.

E leggete soprattutto i Sepolcri se avete tempo. Uno, non mi ricordo chi, ripeteva sempre: «Leggiamo i classici, che abbiamo troppo poco tempo per il resto». Ah sì, me lo ricordo: era il mio amico Jason che lo diceva.

Davide Profumo
Davide Profumo
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