A cura di Claudio Cuccia
PESI è un acronimo (the Pulmonary Embolism Severity Index), uno dei tanti che fa risparmiare tempo prezioso. Per andar ancor più di fretta, è stato pure semplificato nello sPESI, dove la esse sta per simplified, una semplificazione che, di fronte a un paziente con embolia polmonare (EP), dice di star tranquilli, che non succederà nulla, sempre che il valore sia 0 oppure 1.
Il punteggio, nello sPESI, è di un punto per ognuna delle seguenti variabili:
Ora che abbiamo NAO che offrono il cosiddetto single drug approach, potrebbe capitare di dire al paziente: “Prendi la pastiglietta e vai a casa, tanto PESI zero!” Il paziente, superato l’imbarazzo dell’incomprensione relativa alle proprie virtù, potrebbe anche essere contento: chi va volentieri in ospedale? Sembra non capiti nemmeno ai dottori, gli sciocchi, che pur li pagano…
Quanto poi sia ‘speso’ bene il tempo calcolando lo score del rischio lo dicono gli autori dell’EINSTEIN-PE (1), un trial che ha confrontato il rivaroxaban (15 mg due volte al giorno per tre settimane seguito da 20 mg una sola volta al giorno) con la terapia convenzionale (eparine e warfarin). Nello studio, che fin dal nome dà la garanzia di fare i conti per bene, il 53.6% dei pazienti era a sPESI 0, il 36.7% a 1, e soltanto il 9.7% a 2 o più di 2. Nessun paziente aveva valori superiori a 3, a dire che la popolazione non era certo ad alto rischio, senz’altro diversa da quella che si incontra nella pratica clinica.
Comunque, nell’analisi post hoc dello studio (2), i pazienti sPESI 0 oppure 1 non hanno avuto, nella prima settimana dalla randomizzazione, casi fatali di EP e meno dell’1% di recidive non fatali (l’1% se lo sPESI era 1), percentuali che crescevano solo di poco entro il mese dalla dimissione. Sul versante dei sanguinamenti, uno sPESI 1 mostrava, per l’intero periodo di studio, un 1.1% di sanguinamenti con rivaroxaban e un 2.8% con la terapia standard, valori che crescevano se il punteggio saliva a >2 (2.1% e 5.4% rispettivamente per il NAO e per lo standard).
Gli autori concludono dicendo che lo sPESI permette di identificare una corte di pazienti a basso rischio che può essere trattata in una “clinical decision unit” oppure con una strategia di “outpatient strettamente monitorato”.
Il dato è conclusivo? Si tratta di una analisi post hoc, viene da uno studio che pecca dei classici bias di selezione pre-randomizzazione, i pazienti sono di almeno 15 anni più giovani rispetto a quanto mostri il mondo reale (3), non ci sono elementi che tengano conto dei fattori sociali che possono influenzare l’aderenza terapeutica, lo score PESI non è stato a suo tempo disegnato per prevedere gli eventi emorragici, ciononostante un’idea ce la si fa. L’idea che i pazienti debbano essere ben valutati (magari in una clinical decision unit…), per capire quanto rischieranno in futuro.
Tutto ha un senso, non dimentichiamolo, soltanto se si sarà certi della diagnosi di embolia, certezza che richiede il suo tempo, un tempo più lungo di quanto serva per il calcolo stesso dello sPESI. Quante volte infatti il riscontro dell’EP è casuale, durante lo screening di altre patologie, e quante volte si evidenzia una malattia minima, che rischia di mettere in moto un’anticoagulazione sine die se non si dà il tempo al dubbio di affiorare? Una dimissione troppo rapida non può forse esagerare i nostri errori? È vero, le linee guida suggeriscono la possibilità di trattare ambulatorialmente i pazienti a basso rischio, mediante una strategia di stretto monitoraggio (4): ma quant’è fattibile l’immediata programmazione di questo stretto monitoraggio?
Il mondo reale ci dirà come stanno le cose, e oggi è ancora più importante saperlo rispetto a ieri, visto che disponiamo di farmaci efficaci e sicuri, oltre che facili (forse troppo) da usare.
Bibliografia