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11 Novembre 2018Proprio perché immagino che sia molto difficile mettere in mostra la letteratura (e anche perché sono ancora abbastanza felice che sia così difficile) sono piuttosto incuriosito dalla mostra su Ovidio che è stata inaugurata un paio di settimane fa alle Scuderie del Quirinale (qui) e non di rado sento la tentazione di prendere un aereo e di andare a vedere in cosa esattamente consista e perché sia così bella, come dicono.
Ne leggo recensioni entusiaste, in giro per il web e sui giornali (qui, per esempio); ritrovo spesso il nome di Ovidio tra le pagine virtuali che frequento, il suo essere un eccentrico dell’età augustea, il suo diventare in seguito un simbolo del letterato cacciato ed esiliato dal potere (quello con il falso trucco da «buon padre» dell’imperatore Augusto), il suo morire lontano dal mondo civile, in una specie di Siberia dell’età classica sul mar Nero, remota da qualunque forma possibile di scultura e civiltà.
Ma più di tutto mi viene spontaneo ricordare che fu proprio Ovidio, secondo un percorso troppo complicato per poterlo ripercorrere qui, su queste inutili pagine, fu proprio la sua poesia d’amore apparentemente frivola, a dare una spinta decisiva alla rinascita della cultura laica in Occidente (di aetas ovidiana si parla ancora adesso per una stagione che fu culla della poesia d’amore in lingua italiana), a generare un lungo movimento di parole e di versi che culminò alla fine in Dante, in alcuni dei suoi versi in particolare, Tanto gentile e tanto onesta pare potrei dirvi, ma anche, più facilmente, con contaminazioni varie e di ogni genere, Amor ch’al cor gentile ratto s’apprende, figuriamoci un po’.
Ecco, ho sempre amato Ovidio e forse non l’ho mai compreso del tutto, penso stamattina mentre provo a scrivere di lui. Ho sempre pensato la sua poesia come poesia del muoversi dell’amore e dell’accendersi improvviso della passione. Anche per questo mi incuriosisce la mostra romana, che prova a raccontarci Ovidio, a duemila anni esatti dalla sua morte, con queste parole:
La sua poesia sopravvisse e lo rese immortale: sopravvisse alle ingiurie del tempo, al confino, all’ostracismo decretato contro le sue opere, sopravvisse alla volontà del reggitore dell’Impero di annientare quel “contestatore” ante litteram, capace di ferire con la sua ironia dissacrante, con il suo gusto per il paradosso, con quel suo gioco un po’ perverso di mettere gli déi alla berlina. Condannato per un reato di opinione? Condannato per la sua libertà di parola o per le sue frequentazioni? Non lo sapremo mai; ciò che è certo è che Ovidio ha vinto la sua battaglia più grande ed è ancora fra noi.
E forse, tra i libri che bisognerà rileggere almeno un’altra volta prima che sia troppo tardi e i miei occhi non siano più in grado di farlo, ci sono anche le sue Metamorfosi, che ero troppo giovane (può darsi) per comprendere appieno quando me le misero in mano.
Ma troppi sono i libri e poco il tempo, come Ovidio di certo sapeva; forse questa mostra, a duemila anni di distanza, è una forma della sua vittoria proprio sulla lontananza e sull’esilio. E dice a noi, che riprenderemo in mano i suoi versi, uno di questi giorni, che non c’è potere che tenga, la poesia muta forma e sfugge, come un serpente. E l’amore s’accende e s’apprende al cuore più rapidamente di ogni altra passione. E le distanze si polverizzano, nel tempo come nello spazio, e siamo tutti nella nostra classica e moderna Siberia a chiederci il motivo del nostro essere stati, chissà da chi, esiliati.