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una ricetta per la cena di stasera

Ingredienti

– il libro di ricette da cui tutto è cominciato (qui)
– il post letto ieri sul web, che tutto ha risvegliato (qui)
– una poesia molto brutta, con relativa e superflua polemica (qui)
– la divagazione sulla parola stessa, che chiama in causa i medici (qui)
– il libro immaginario che però c’è già (qui)
– il finale a sorpresa

Preparazione

Ricordare all’improvviso che tutto nasce da un libro acquistato tre decenni fa, senza nemmeno capire perché. Ricordare che il libro si intitolava Ricette immorali, che lo aveva scritto Manuel Vázquez Montalbán, ricordare che ti sedusse immediatamente, per quella sua leggerezza, per la sua ironia, per la capacità di coniugare ricette e letteratura. Citare, perché indimenticabile, la breve spiegazione della ricetta più complicata di tutte, «Pane e pomodoro»:

È indispensabile che tutti gli esseri umani e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame.

Ma riprendere subito il filo, però. E sapere che il filo comincia da un post letto ieri sera, storia curiosissima di ricette e ricettari, che parte dalla Mesopotamia e arriva fino alla cascata di libri di gastronomia presenti oggi in libreria, ma racconta una storia che è anche la storia del nostro rapporto con il cibo e la sua descrizione e tutte le sue possibili preparazioni. Sottolineare per esempio questo acuto passaggio:

Un’altra particolarità piuttosto divertente dei ricettari antichi, in parallelo con l’assenza di pesi e misure, è la vaghezza delle indicazioni temporali: cuoci per 10 minuti? No, per la durata di due padrenostri (così unisci l’utile al dilettevole).

E giungere infine al punto, quello che più ci interroga, che ci chiede chi siamo, a cui il post arriva dopo lunga e interessante trattazione. E il punto è probabilmente questo:

Possiamo dividere il mondo cucinante, quindi il mondo, in due grandi categorie, due vere scuole di pensiero: i formalisti e i sostanzialisti, i letterali e gli interpreti, i classici e i jazzisti, i pedanti e i fanfaroni, i platonici e gli aristotelici. Insomma, quelli che ritengono che la ricetta sia un copione da seguire alla lettera, e quelli che la considerano un canovaccio su cui improvvisare. Il dibattito ferve, oggi più che mai.

Ma non dimenticare la parola, però: ricetta. E scoprire, con un certo imbarazzo, che la parola nasce proprio in ambito medico e che viene prima la prescrizione medica (la gallina) e solo dopo (molto dopo) quella gastronomica (l’uovo sodo). Scoprirlo qui, e leggere così:

Il medico, come fa oggi, prescriveva dei rimedi farmaceutici: la sua prescrizione ruotava intorno a un verbo specifico, recipere, cioè ‘ricevere’. In particolare questa si articolava in una serie di recipe, nientemeno che un imperativo, un ‘prendi’ in cui si indicavano ingredienti e dosi da raccogliere per la produzione del farmaco, e naturalmente le norme e le procedure per eseguirla. Il nome di ‘ricetta’ è invece la mutazione in sostantivo di un participio: la prescrizione infatti era nota come formula recepta, cioè ‘formula ricevuta’. La ricetta è letteralmente la formula ricevuta dal medico — rivolta a farmacisti e pazienti.

Sottolineare quindi che le strade della parola e della cultura sono davvero complesse, e articolate, e imprevedibili. Cedere così alla tentazione superflua di leggere in quell’espressione, formula recepta, da cui tutto proviene, una possibile lontanissima eco della montaliana «formula che mondi possa aprirci», quella che al poeta non possiamo chiedere, perché non ci sono parole né formule sufficienti, solo qualche storta sillaba, perché non è più tempo per le formule o le ricette, perché tutto è ormai incomprensibile, perché il male di vivere non si cura con una così facile prescrizione di medicinali.

Considerare quindi che una ricetta può essere medica o gastronomica ma difficilmente esistono ricette letterarie: le quali, se ci sono, sono anche pericolose, perché appiattiscono le asperità della scrittura. Sostenere che la grande letteratura eccede qualunque possibile ricetta, deve farlo, se vuole essere grande. Altrimenti sarà magari piacevole, sarà discreta, sarà consolante, ma non sarà grande. E quindi allegare bella intervista a bravissima traduttrice, Martina Testa, che (mentre si lascia sfuggire l’unico parere possibile sulla poesia più citata in questi giorni: è veramente una poesia brutta, mammamia quanto è brutta) dice più o meno questo: che esistono romanzi scritti tutti allo stesso modo, secondo ricette standardizzate, usciti dalle «scuole di scrittura» dice lei, frutto di penne «depotenziate»:

Depotenziate da un sistema editoriale che è ormai solo industriale. Lo scrivere romanzi è diventato un mestiere che ha una sua trafila. Quasi nulla si pubblica se tu non sei uscito da un MFA (Master of Fine Arts), cioè un corso universitario di scrittura creativa – la stragrande maggioranza degli esordienti americani escono da questi corsi. C’è già una selezione in partenza visto che solo alcune persone possono permetterseli. È un ambiente laboratoriale. Niente di male a imparare a scrivere con una tecnica, però oggettivamente se la produzione che arriva alla pubblicazione nasce tutta e solo in ambiente laboratoriale un po’ si standardizza.

E infine, perché la ricetta è già molto lunga così, immaginare un libro eccentrico, una cosa nuova: una raccolta di ricette impossibili, con ingredienti inesistenti, per ottenere piatti immangiabili… E dirsi: questa sì che potrebbe essere letteratura!

E invece no. Lo hai vicino alla tua scrivania, un libro così (e non è per niente letteratura). Si intitola In cucina con Harry Potter e lo hai aperto solo una volta. Perché l’unico grande pregio che questo libro ha ai tuoi occhi è che lo ha tradotto un’altra traduttrice, bravissima anche lei, simpaticissima, una traduttrice che lavora nella stanza accanto a quella in cui tu ora stai scrivendo e che è anche una cuoca bravissima, una jazzista improvvisatrice di qualunque possibile ricetta dei suoi mille libri di ricette sparsi nei mille angoli della vostra casa…

E quindi, a questo punto, staccare le mani dalla tastiera del pc, alzarsi, spuntare con la testa in quella stanza di fianco, sorprenderla mentre fissa lo schermo del suo computer alla ricerca della parola giusta, sorriderle, chiederle quale ricetta speciale le stia venendo in mente per stasera, non ascoltare nemmeno la risposta, avvicinarsi, darle un bacio.

Davide Profumo
Davide Profumo
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3 Comments

  1. .mau. ha detto:

    beh, da noi la Scuola Holden non dovrebbe ancora avere il monopolio dei nuovi autori!
    (ma la traduttrice nella stanza accanto lavora anche dall’inglese?)

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