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una persona in una stanza

Leggo stamattina, sullo schermo del mio pc, delle frasi tratte dal nuovo libro di Leonardo Colombati (sono frasi di questo articolo, le trovate qui). Cerco di mettere insieme i riferimenti, le citazioni, gli autori, i poeti, le opere. Sono tanti, faccio un po’ fatica, a volte devo ricominciare l’intero capoverso: poi, forse, capisco.

Sto leggendo, in effetti.

Sto cercando di tenere insieme le parole di un altro e di farle diventare un disegno mio, una mia immaginazione, sto forse facendo quello che Colombati dice che qualunque lettore (complice dello scrittore) fa quando legge:

Questo siamo, noi lettori (in questo simili agli scrittori): bambini che dalla foresta di segni che osserviamo disposta sulla pagina di un libro sappiamo trarre mari, città, torri, fate, principi e lupi cattivi; siamo … chiamati a dare forma, colore e consistenza a un rapido tratto di matita, tramutandolo in un fiume carico di pesci guizzanti sotto il sole.

Mi piacciono molto alcune delle frasi che scrive Colombati. «Trarre mari», per esempio. Ma anche quest’altra, poco lontano: «La narrativa non ci chiede di credere alle cose (in senso filosofico), bensì di immaginarle (in senso artistico)». O quella sulla teoria dell’iceberg in letteratura, ripresa da Hemingway e spiegata nell’articolo. La trovo forte e acuta, penso che sia vera per un romanzo ma ancora più vera per la poesia, per la scrittura in versi. Perché nella poesia c’è la grande quantità di spazio bianco, tra un verso e l’altro, tra una parola e l’altra, a rendere visibile e concreto il silenzio, l’invisibile, il non detto, tutto ciò a cui il poeta allude senza dirlo, tutto ciò che è immaginabile.

Penso ovviamente al «Non chiederci la parola… Non domandarci la formula» che fu di un grande poeta che tutti ormai studiamo a scuola. Penso che su quella sua «storta sillaba e secca come un ramo» abbiamo fondato un’interpretazione intera della realtà contemporanea, la nostra mappa esistenziale del Novecento, il cosiddetto «male di vivere»: tutto a partire da una parola che non è mai stata scritta.

Magari è così anche per voi, medici e non medici: cerchiamo tutti nella letteratura (e nella poesia) qualcosa da immaginare, qualcosa che, lasciandosi immaginare, ci racconti cosa siamo e di cosa siamo ancora capaci, in quanto lettori ed esseri umani, in quanto capaci di immaginazione.

Ma ho anche letto, subito prima di questo articolo, una poesia di Mario Luzi che non ricordavo. Il poeta dice di essere, in questa poesia (che copio in fondo), mentre fuori è stato carnevale, una «persona in una stanza», un «uomo nel fondo di una casa». Che mi è sembrato volesse significare un niente, un’irrilevanza, una inutilità. Ma capace però di immaginare, di ricordare, di aspettare qualcosa, di sperare ancora.

Mi è piaciuto pensare di essere in quel momento io il lettore di quella poesia, persona in una stanza (quello che siamo quasi sempre), io che stavo immaginando, grazie allo spazio vuoto tra un verso e l’altro, tra una parola e l’altra, la mia stessa stanza, il disegno della mia vita, uno specchio in cui vedermi, il silenzio che mi circonda, tutto quello che non si può dire se non con il non detto della poesia. Il bianco immobile dopo l’ultima sillaba del testo.

Nella casa di N. compagna di infanzia

Il vento è un aspro vento di quaresima,
geme dentro le crepe, sotto gli usci,
sibila nelle stanze invase, e fugge;
fuori lacera a brano a brano i nastri
delle stelle filanti, se qualcuna
impigliata nei fili fiotta e vibra,
l’incalza, la rapisce nella briga.

Io sono qui, persona in una stanza,
uomo nel fondo di una casa, ascolto
lo stridere che fa la fiamma, il cuore
che accelera i suoi moti, siedo, attendo.
Tu dove sei? sparita anche la traccia…
Se guardo qui la furia e se più oltre
l’erba, la povertà grigia dei monti.

Davide Profumo
Davide Profumo
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