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Una comune variante genetica sul cromosoma 9P21 influenza il rischio di infarto miocardio

Una comune variante genetica sul cromosoma 9P21 influenza il rischio di infarto miocardio
P.Angelica Merlini*, Daniela Lina, Diego Ardissimo

*Divisione Di Cardiologia,Ospedale Maggiore Niguarda, Milano – Dipartimento Di Cardiologia, Ospedale Universitario, Parma

 

L’infarto miocardico è una patologia multifattoriale, che risulta dall’interazione fra molteplici fattori di rischio genetici ed ambientali. L’associazione causale fra i fattori di rischio ambientali e lo sviluppo di infarto miocardico è stata chiaramente documentata ed il ruolo di questi fattori è stato ben definito dal punto di vista fisiopatologico1 . Viceversa, sebbene il ruolo dei fattori di rischio genetici sia da lungo tempo ipotizzato sulla base degli studi epidemiologici2, di fatto, le specifiche varianti genetiche che condizionano il rischio di infarto miocardico non sono ancora state identificate3 .
La familiarità per cardiopatia ischemica è un fattore di rischio indipendente4 per lo sviluppo di infarto miocardico e questa associazione non può essere spiegata dalla sola esposizione agli stessi fattori di rischio ambientali 5,6. In effetti, nel caso di gemelli monozigoti, che condividono lo stesso patrimonio genetico, la morte cardiaca in età giovanile di uno dei due gemelli comporta che il gemello sopravvissuto abbia un rischio quindici volte maggiore di andare incontro allo stesso evento se di sesso femminile e di otto volte se di sesso maschile rispetto al caso in cui nessuno dei due gemelli muoia per morte cardiaca. Il rischio è invece significativamente inferiore nel caso di gemelli dizigoti, che hanno in comune solo metà del proprio patrimonio genetico, con un rischio incrementato di sei volte per le femmine e di due volte per i maschi7 . Questa influenza geneticamente determinata si conferma, seppur in maniera meno significativa, sia per gli uomini che per le donne, in tutte le fasce di età, suggerendo che la componente di rischio genetica, pur essendo massima rispetto alla componente di rischio ambientale in età giovanile, sia comunque significativa a qualsiasi età 2. Peraltro, sebbene i fattori genetici contribuiscano allo sviluppo dei classici fattori di rischio cardiovascolare, quali il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa e l’ ipercolesterolemia, il ruolo della predisposizione genetica all’infarto miocardico non è limitato allo sviluppo di questi fattori, ma ha anzi un valore incrementale ed indipendente.
La conoscenza delle varianti genetiche che condizionano il rischio di infarto miocardico costituirebbe sicuramente una nuova e preziosa risorsa sul piano clinico aprendo le porte, anche in ambito cardiovascolare, come già è stato in ambito oncologico, alla terapia effettivamente modulata sulle specifiche caratteristiche biologiche del singolo individuo. Praticamente tutto questo si tradurrebbe in una migliore stratificazione del rischio su base individuale e quindi in una più efficace strategia preventiva e verosimilmente anche nell’identificazione di nuovi bersagli terapeutici per il trattamento dell’infarto miocardico.
Negli ultimi dieci anni sono stati quindi effettuati numerosi tentativi, mediante l’approccio del gene candidato e dell’ analisi di linkage, per identificare le varianti genetiche associate al rischio di infarto miocardico. I risultati sono stati tuttavia poco incoraggianti e di pressoché nulla consistenza sul piano clinico perché fra le diverse varianti genetiche proposte quelle frequentemente rappresentate nella popolazione non sono mai state riprodotte3, mentre quelle che sono risultate effettivamente correlate allo sviluppo di infarto miocardico spiegavano solo una minima parte (<1%) dei casi8 .
Solo molto recentemente, una nuova metodica di analisi genomica, chiamata genome wide association study (GWA), ha fornito risultati promettenti permettendo di identificare comuni varianti genetiche che influenzano lo sviluppo di alcune malattie complesse quali la degenerazione maculare9 , il diabete mellito 10,11, la malattia di Crohn12 e l’artrite reumatoide13 . Tale metodica, partendo dalla mappatura del genoma umano ed in particolare dalla mappa degli aplotipi (Haplotype Map)14 che individua le varianti genetiche (single nucleotide polymorphism, SNP) più frequentemente e stabilmente presenti nel genoma umano, utilizzando chip che permettono di analizzare sino ad 1.000.000 di SNPs per ogni individuo, è in grado di individuare piccole regioni del DNA che massimamente si differenziano tra i sani ed i malati. Questi SNPs massimamente diversi fra sani e malati non necessariamente costituiscono essi stessi le sequenze genetiche responsabili della malattia, ma, piuttosto, sono sequenze nucleotidiche ubicate in vicinanza o all’interno della regione genetica che influenza la malattia.
Nel mese di giugno uno studio caso-controllo effettuato da Helgadottir et al15 mediante la metodica di “genomewide association study” ha chiaramente documentato la significativa associazione fra una variante genetica ubicata sul cromosoma 9 (9p21.3), rs 10757278, peraltro frequentemente rappresentata nella popolazione, con lo sviluppo di infarto miocardico con un odd ratio (OR) stimato di 1,26 per gli eterozigoti e di 1,64 per gli omozigoti. Considerata la frequenza di questo allele nella popolazione europea e in quella statunitense stimata pari al 45,3% (con gli omozigoti che rappresenterebbero il 21% della popolazione), il corrispondente rischio attribuibile di popolazione pari al 21% risulta tutt’altro che trascurabile. Se si considera poi la sola popolazione di infarto miocardico giovanile, visto il maggior peso della predisposizione genetica, il rischio attribuibile di popolazione, come prevedibile, sale al 31% con un OR di 1,49 per gli eterozigoti e di 2,02 per gli omozigoti.
In maniera abbastanza sorprendente due studi indipendenti dal precedente che documentano l’associazione dello stesso locus collocato sul cromosoma 9 e lo sviluppo di cardiopatia ischemica sono stati pubblicati pressoché contemporaneamente. Nello studio effettuato da McPherson et al16 sulla popolazione caucasica i due SNPs identificati, rs 10757274 e 2383206, definiscono un allele associato ad un incremento del rischio di infarto miocardico del 15-20% nel 50% degli individui eterozigoti e del 30-40% nel 25% di individui omozigoti. Pertanto il rischio attribuibile di popolazione varia fra il 10 e il 15% a seconda della sottopolazione considerata. Anche nell’ambito della popolazione inglese del Wellcome Trust Case Control Consortium (WTCCC), consorzio di diversi gruppi che si occupano di genetica cardiovascolare nel Regno Unito, diversi SNPs distribuiti lungo una sequenza genetica di oltre 100 Kb sul cromosoma 9, in linkage disequilibrium fra loro, sono risultati associati allo sviluppo di cardiopatia ischemica con il più significativo segnale in corrispondenza dello SNPs rs133304917 .
A luglio sono poi giunti i risultati dello studio18 di replicazione degli SNPs associati alla cardiopatia ischemica, identificati dal Wellcome Trust Case Control Consortium (WTCCC), e testati nella popolazione del German Myocardial Infarction Family Study che ha arruolato soggetti colpiti da infarto miocardico. Dei diversi SNPs studiati, anche nella popolazione tedesca, lo stesso locus ubicato sul cromosoma 9, rs1333049, è risultato essere quello associato alla cardiopatia ischemica in maniera più significativa. Circa il 50% della popolazione era eterozigote per l’allele e circa il 22% era omozigote con un OR di 1,28 per ciascun allele ed un rischio attribuibile di popolazione del 22%.
Infine uno studio ulteriore per valutare la riproducibilità di tale associazione fra questa variante genetica e lo sviluppo di infarto miocardico giovanile è attualmente in corso su una popolazione italiana di soggetti colpiti da infarto miocardico prima dei 45 anni di età ed i risultati di questo studio saranno disponibili a breve.
L’associazione del cromosoma 9p21.3 con l’infarto miocardico e la cardiopatia ischemica più in generale è il primo risultato effettivamente consistente nell’ambito della ricerca della predisposizione genetica alla cardiopatia ischemica essendo di fatto il primo dato chiaramente riprodotto nell’ambito di diverse popolazioni, peraltro tutte di dimensioni significative, ed essendo la variante genetica frequentemente rappresentata nella popolazione. Tuttavia a fronte di questi dati entusiasmanti bisogna dire che la funzione della variante genetica non è ancora nota. Ciò che è noto è poco e cioè che la sequenza genetica a cui appartengono gli SNPs identificati è collocata in prossimità delle sequenze codificanti dei geni di due chinasi ciclica-dipendenti, CDKN2A e CDKN2B, e che le proteine codificate da questi geni, chiamate p16INK4a, ARF e p15INK4b hanno un ruolo nella regolazione della proliferazione, della senescenza e dell’apoptosi cellulare in diverse tipologie di cellule, tutti processi fondamentali per lo sviluppo dell’ aterosclerosi e della cardiopatia ischemica ad essa conseguente. Inoltre la stessa regione del cromosoma 9 è stata recentemente associata anche allo sviluppo del diabete mellito di tipo II suggerendo che le due patologie potrebbero condividere la stessa base patogenetica.
Ovviamente affinché questi risultati possano avere un risvolto pratico in ambito clinico sono prima necessari ulteriori studi per confermare tale associazione e per identificare la funzione di questa sequenza genetica attraverso la fine mappatura della stessa e magari anche attraverso l’approccio del gene candidato. Inoltre dato che il rischio relativo associato alla variante genetica non è particolarmente elevato, come prevedibile per una patologia multifattoriale, tale variante giustificherebbe solo una parte dei casi di infarto miocardico per cui ulteriori studi sono necessari per identificare altre varianti genetiche alla base dell’infarto miocardico e della cardiopatia ischemica.
Bibliografia

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2
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17
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