Pare a me una buona (anzi: ottima) notizia che un intellettuale come Giorgio Agamben, uno tra i più lucidi lettori della realtà contemporanea, abbia cominciato a tenere una personale rubrica in rete (come se fosse un blog, e lui un blogger). E mi pare forse una notizia ancora più bella che il suo primo articolo da blogger (mi compiaccio di questo scherzo, lo so) riguardi il concetto di «studio» e le sue possibili declinazioni verbali (studente, studioso), perché è un concetto di cui abbiamo assai bisogno e della cui chiarezza viene (a me) assai difficile fare a meno.
La riflessione con cui Agamben inaugura la sua rubrica è quindi la buona notizia, quella a cui vi potrete fermare, se non avete voglia dell’altra. È una riflessione importante e stimolante, e a un certo punto ragiona così:
… mentre la ricerca ha sempre di mira una utilità concreta, non si può dire lo stesso dello studio, che, in quanto rappresenta una condizione permanente e quasi una forma di vita, può difficilmente rivendicare un’utilità immediata. Occorre qui rovesciare il luogo comune secondo cui tutte le attività umane sono definite dalla loro utilità. In forza di questo principio, le cose più evidentemente superflue vengono oggi iscritte in un paradigma utilitaristico, ricodificando come bisogni attività umane che sono sempre state fatte soltanto per puro diletto. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio…
Amara, invece, è la necessità di linkare ancora oggi, dopo tanto tempo e tanta cosiddetta «memoria» dispersa in giornate e viaggi premio e celebrazioni isteriche e/o assonnate, un articolo che ci parli della paura e delle macchine propagandistiche che la creano e la alimentano. Amarissima necessità, ma inevitabile: e questa è la cattiva notizia. Esplicitata in questo articolo di Roberto Escobar che sembrerebbe superfluo se non fosse invece più che mai necessario; il quale arriva a dire così:
La politica che utilizza questa macchina – la politica della paura – non teme eventuali smentite da parte della realtà. Nel caso, le basta riorientare l’immaginario diffuso contro qualcun altro, nuovo e comodo responsabile dei fatti, anche di quelli «aggiustati» o del tutto inventati. Ora si tratta dei migranti per povertà, ora dei profughi, ora delle Ong, ora dei ladri casalinghi (ebrei e «zingari» restano sempre a disposizione, per le streghe può darsi che qualcuno si stia attrezzando). In questo modo, la politica smette d’essere progetto, scelta, responsabilità. Il suo tempo non è il futuro, ma un presente ridotto alle miserie del consenso. Il suo spazio non è la piazza, ma una messa in scena mediatica.