i ritagli di gennaio
1 Febbraio 2019Un matrimonio che s’ha da fare… o uno specchietto per le allodole?
4 Febbraio 2019Ci sono le bestie feroci. Che poi, con il passare dei cerchi dei versi e dei canti diventano anche mostri, giganti, esseri alati, cani ringhiosi, ma all’inizio sono propriamente e soltanto bestie feroci, le «tre fiere» si dice nella aule scolastiche, le «tre fiere» ripetono gli studenti che hanno studiato con diligenza, che te ne spiegano con aria compita il significato simbolico, le tre fiere, anche se poi, a pensarci bene, pare che le tre fiere siano soltanto una, una bestia feroce, non compaiono mai insieme, si trasformano forse una nell’altra, bestia una e trina, sono tre bestie feroci ma sono soltanto una lupa, maledetta lupa, che si ammoglia ad ogni altro animale, che non può essere sconfitta, che ci condanna alla nostra perdizione, nella selva oscura dei nostri sempre uguali, sempre ripetuti errori.
Sarà (lo avete capito) perché sto leggendo in questi giorni alcuni saggi e articoli a proposito del primo canto dell’Inferno di Dante, ma mi colpisce l’affollarsi di bestie nei libri che leggo. E penso a come l’uomo (bestia che parla) abbia nei secoli raccontato (oltre che sterminato) le bestie che gli vivono accanto, cercando di comprenderle e probabilmente non riuscendoci mai. Per questo, insomma, mi pare bello consigliarvi (oltre che riprendere in mano il primo canto della Commedia di Dante, ça va sans dire) questo articolo a firma di Luca Sebastiani, che prova a mettere un po’ di ordine ai miei pensieri slegati sulle bestie che ci circondano e forse, se c’è un cammino, ci impediscono il cammino. E Sebastiani scrive così, a un certo punto, parlando del «mutismo ostinato» delle bestie:
Ma anche se la scienza moderna descrive l’anatomia degli animali, ne osserva i comportamenti e riconduce tutto al quadro teorico del determinismo darwiniano, non esaurisce certo l’essenza fantastica delle bestie. Del resto non sappiamo neanche di noi stessi chi siamo dove andiamo eccetera, quelle domande che ci assillano quando davanti allo specchio ci radiamo velocemente per arrivare in ufficio all’ora. Sì, d’accordo, siamo animali che parlano, ma per dire cosa? Ecco, forse il silenzio degli animali, il loro mutismo ostinato ci rimanda una certa solitudine costitutiva della nostra specie, una sensazione di estraneità a noi stessi che apre uno spazio indeterminabile, un’occasione di meraviglia anche oggi.
Le quali bestie, lo sapete già, sono protagoniste di un libretto minuscolo di cui non mi sono mai stancato, da trent’anni a questa parte. Si intitola proprio così, Bestie, lo ha scritto più o meno un secolo fa Federigo Tozzi e ne parla proprio in questi giorni Luisa Mirone sulle pagine virtuali di uno dei migliori siti letterari italiani. E, oltre a citare molti apologhi di Tozzi (saranno apologhi? o cos’altro sono? sono favole? no, non sono affatto favole…), Mirone scrive anche così:
Venuta meno la funzione unificante del soggetto, tutte le cose cessano d’avere senso e si accampano le une accanto alle altre come oggetti irrelati di una natura morta: limone, bicchieri, piatti “sono belli perché miei”, perché l’io li tiene insieme nella “compilazione d’una storia” che lo riguarda. Ma, non appena qualsiasi elemento estraneo (qui la voce di un ragazzo che porta “gli agnelli a vendere”) interviene ad alterare il novero degli oggetti posseduti, l’io stesso si scompagina, scosso dai brividi, e ogni cosa precipita in un vuoto di senso, “così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo”.
Ma i versi danteschi possono anche non bastare, in certe mattine luminose e celesti che sembrano così lontane dalle bestie dell’oscurità della selva del primo canto dell’Inferno. Ed ecco allora una poesia. La poesia che sempre mi viene in mente quando si parla di animali, di ferocia, di istinto, di cibo, di catena alimentare, di veleno, di minaccia. L’ha scritta più o meno venticinque anni fa Franco Fortini (lo stesso che, in una mirabile strofa, scrisse così: «Siedo a sera sul margine della foresta. / Le bestie selvagge e timide cercano acqua», che è forse il miglior commento novecentesco al primo canto infernale) e recita così:
Stanotte un qualche animale
ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle
che illumina un bel sole
ha lasciato uno sgorbio sanguinoso
un mucchietto di visceri viola
e del fiele la vescica tutta d’oro.
Chissà dove ora si gode, dove dorme, dove sogna
di mordere e fulmineo eliminare
dal ventre della vittima le parti
fetide, amare.
Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.
E non è vero.
Il piccolo animale sanguinario
ha morso nel veleno
e ora cieco di luce
stride e combatte e implora dagli spini pietà.