Quando una recensione o un breve post suscitano in me il desiderio di leggere un libro che ho già letto, sono felice.
Un po’ perché sempre di più mi convinco di una cosa che ha scritto Javier Cercas, anche se non ricordo esattamente dove (in realtà pensavo di ricordare che fosse entro il breve romanzo Il movente, ma ho sfogliato ansiosamente il libro e non ho trovato niente); una cosa che, più o meno, dice che il vero atto letterario non siano né la scrittura né lettura ma proprio ed esattamente la rilettura.
Un po’ perché quel desiderio di rileggere una cosa che già conosco mi lascia sospettare di non conoscerla davvero bene, di non aver capito quello che c’era da capire o di non averlo capito abbastanza, di essermi lasciato sfuggire l’essenziale (mi capita spesso), di non aver colto tutto quello che si doveva cogliere ma soltanto quello che, quella volta, volevo cogliere: di avere insomma letto me stesso e non il libro.
(Anche se forse, a ben vedere…)
Per questo stamattina sono un po’ contento (non tanto, non esageriamo). Perché una breve ma lucida recensione di Bianca Sorrentino (la trovate qui) mi ha fatto venire voglia di rileggere il Cesare Pavese dei Dialoghi con Leucò, che lessi tanto tempo fa e che non ho mai più aperto. E lo ha fatto con parole e osservazioni molto semplici, ma efficaci, come queste:
Dopo la fine del conflitto mondiale, gli intellettuali italiani erano animati da un’insaziabile sete di verità, da una smania di racconto che rispondeva al dovere di rappresentare le atrocità e le vigliaccherie che avevano contraddistinto quel tempo. In un simile contesto, rivolgersi al mito e dare voce alla sua atemporalità significava attirarsi accuse vigorose e spiacevoli, come quella che insinuava il biasimevole desiderio di sottrarsi al necessario confronto con il reale e di venir meno così a quell’imperativo categorico che risuonava invece ora in tutta la sua urgenza […] Le pagine di Pavese sono bagnate da un pianto antico: le lacrime delle cose risalgono dal fondo buio dei secoli, a dirci che per certi interrogativi non si è ancora riusciti a trovare la risposta definitiva. […] Il dialogo è un tentativo momentaneo di confronto con l’altro da sé, ma alla solitudine non c’è rimedio: è questa la nostra radice e il nostro destino.
I Dialoghi sono anche il libro cui Pavese scelse di affidare il suo ultimo biglietto prima di uscire di scena, la famosa frase sul perdono e i pettegolezzi, in quella camera d’albergo. Forse anche per questo li ho sempre considerati un libro speciale: il libro speciale di un poeta speciale. Come se di poeti, poi, ne esistessero di altro tipo.