il punto interrogativo
7 Giugno 2020un debole parere
16 Giugno 2020Tra i moltissimi rimpianti che mi ha lasciato questa fine di anno di scuola in quarantena (cioè senza scuola) c’è, minimo ma forse non trascurabile, il dispiacere di non avere letto le poesie di Franco Fortini, davanti agli studenti di quinta, nelle mattine calde e luminose di questi giorni.
Lo faccio da molti anni, in effetti: l’ultima settimana di anno scolastico, come «fuori programma», leggo versi di Fortini, scelti da me. Li porto in classe, li distribuisco, li presento con incertezza, li commento poco, ascolto le impressioni degli studenti, dico loro che Fortini è la voce poetica a mio parere più interessante e importante dell’ultima parte del Novecento, cerco di incontrarli per l’ultima volta, i miei studenti, sul terreno della poesia, dei segni della lingua, della metrica, mentre insieme incontriamo Fortini. Sembra una piccola cosa, nel grande mare della vita scolastica, nella grande nebbia del futuro che li attende e li spaventa, ma quest’anno non ho potuto farla; e questa impossibilità l’ha fatta sembrare una cosa un po’ più grande.
Tanto più che sto leggendo un libro, quest’anno, che avrebbe potuto dare, in qualche modo, luce al mio gesto consueto. Un libro importante, uno di quei libri che stento sempre a consigliare su queste pagine perché temo le vostre facce severe e annoiate mentre leggete, temo di esservi antipatico (lo so bene che è dei sei libri della cinquina [sic] del premio Strega che forse dovrei dirvi qualche parola; ma non ci riesco, siate pazienti, mi interessa così poco…). Il libro che vi sto invece citando oggi si intitola I chiusi inchiostri (che bel titolo) ed è un libro assai più importante e complicato; è un libro di critica letteraria, scritto da un critico di somma rilevanza (Pier Vincenzo Mengaldo) a proposito dell’opera di Franco Fortini, ma è anche la storia intellettuale di un’amicizia, di una «lunga fedeltà», avrebbe detto qualcun altro, di un incontro che si è protratto per decenni e si protrae ancora adesso, benché Fortini sia morto, mentre le sue parole risuonano nelle nostre teste (o nelle nostre aule, quando si può).
Lo trovate benissimo presentato qui, da Alberto Bertino. E potete leggere queste parole di Mengaldo:
Fortini è stato un mio grande amico … È stato anche, Fortini, l’uomo più intelligente che abbia conosciuto: di un’intelligenza abbagliante e perfino umiliante.
Ecco, la forza delle parole, non so se la sentite voi come la sento io. La forza delle parole banali. Oppure qui:
È anche vero che la sua accanita formalizzazione e stilizzazione, e la vigilanza intellettuale che queste implicano, sono un salutarissimo contravveleno alla poesia di analfabeti che tiene sempre più il campo in Italia. Leggendo ‘Paesaggio con serpente’ si è sempre richiamati al sano pregiudizio che anche la poesia sia opera di pensiero.
Io sto leggendo questo libro, mentre la non-scuola di quest’anno finisce insensata tra acronimi e voti assurdi, e sto imparando molte cose. Me lo tengo su uno spigolo della scrivania come si tengono i libri importanti, ogni tanto lo apro, lo richiudo, ogni tanto lo percorro, come si fa con i libri importanti, e lo guardo. Penso all’incontro tra questi due uomini, penso ai miei incontri, penso ai miei studenti che non leggeranno mai Fortini e al loro futuro, adesso nebbioso, che li attende. Mi prende come una strana nostalgia. Ma so che da qualche parte, tra i miei libri, c’è una poesia di Franco Fortini tra le tante che racconta anche questo strano sentimento, che ora è mio. Mi alzo e la vado a cercare.