Posso raccontare un aneddoto assurdo, per iniziare. Eravamo studenti di lettere, di ingegneria e di scienze politiche, vivevamo in un appartamento alla periferia di Milano, zona ovest, studiavamo, parlavamo con fiducia di politica e letteratura, avevamo una volta letto alcune poesie di Zanzotto, cercando tutti insieme di capirle, uno di noi era di Treviso, portò una sera l’elenco del telefono della sua provincia (erano gli anni Novanta, esistevano queste cose), ci indicò la riga in cui risultava, entro il comune di Pieve di Soligo, il nome: Zanzotto, Andrea; e il numero. Facemmo il numero. Il mio amico gli parlò in dialetto. Lui rispose, forse era un po’ scocciato (lo immagino ora, allora non lo pensai) ma fu gentile, gli chiedemmo di spiegarci un verso che non capivamo, di una delle sue poesie, credo si trattasse di Vocativo, non mi ricordo il verso, poi gliene chiedemmo anche un altro, non mi ricordo nemmeno quello. Lui ci diede una spiegazione, o qualcosa del genere, ci disse «il mondo è in coma», questo lo ricordo bene, ci salutò, ci lasciò lì, alla periferia di Milano, con la cornetta del telefono in mano, un po’ emozionati per quello che avevamo fatto, un po’ stupiti che si potesse fare. Eravamo un po’ ingenui, ma insomma, fu divertente.
Ripenso a quella sera e a quella telefonata ogni volta che leggo qualcosa su Andrea Zanzotto. E visto che sono passati ormai dieci anni dal giorno in cui è morto, mi ha fatto piacere ricordarmi anche oggi di quella serata, degli anni Novanta, di quell’appartamento vicino al Lorenteggio, di quella cornetta del telefono tenuta in mano da tre studenti che cercavano di capire dei versi faticosi, il coma del mondo. E mi piace pensare che la poesia di Zanzotto possa essere, nel frattempo, arrivata fin qui, anno 2021, futuro post pandemico (speriamo).
Che ne so, una poesia qualsiasi, apro il vecchio libro che ho cercato e ritrovato nella libreria, lo stesso che leggevamo a Milano, magari questa poesia, di folgorante bellezza, che si intitola Idea e che a un certo punto parla anche di «cuore», strumento nostro di letterati e vostro sguardo di cardiologi:
E tutte le cose a me intorno
colgo precorse nell’esistere.
Tiepido verde il nitore dei giorni
occulta, molle li irrora,
d’insetti e uccelli s’agita e scintilla.
Tutto è pieno e sconvolto,
tutto, oscuro, trionfa e si prostra.
Anche per te, mio linguaggio, favilla
e traversia, per sconsolato sonno
per errori e deliqui
per pigrizie profonde inaccessibili,
che ti formasti corrotto e assoluto.
Anche tu mio brevissimo nitore
di cellule mentali, tronco alone
di gridi e di pensieri
imprevisti ed eterni.
Ed esanime il palpito dei frutti
e delle selve e della seta e dei
rivelati capelli di Diana,
del suo felice dolcissimo sesso,
e, agra e vivida, l’arsura .
che all’unghie s’intromette ed alle biade
pronte a ferire,
e il mai tacente il mai convinto cuore,
tutto è ricco e perduto
morto e insorgente
tuttavia nella luce
nella mia vana chiarità d’idea.
Ecco, insomma. Tra le tante cose belle che abbiamo da rileggere ci sono anche le poesie di Andrea Zanzotto, secondo me. E ci sono i ritratti di lui da cui potemmo partire oggi, ora che lui non c’è più, ora che al telefono non penso vi potrà rispondere.
Per esempio c’è questo, scritto da Marco Settimini. E poi ancora c’è questo, scritto da Raoul Precht, in cui emergono con nitidezza i legami tra la poesia di Zanzotto e il paesaggio, il suo paesaggio, quello veneto, ma il paesaggio di tutti, il mio, siciliano lombardo e ligure, il vostro, di dovunque voi siate:
… tanto il sempre più derelitto paesaggio che abitiamo, quanto noi stessi, nella nostra finitudine, finiamo per essere presenti e assenti allo stesso tempo, e questa presenza-assenza si rivela appunto nella frantumazione e nella presunta afasia del linguaggio della poesia, ridotto, per riprendere un’altra fortunata metafora, a un mero graffio sulla pelle di un mondo che è passato nel secondo dopoguerra “dai campi di sterminio allo sterminio dei campi”. La disgregazione esperita dalla poesia, sempre ai limiti del silenzio, del mutismo, non è che il riflesso dell’esigenza zanzottiana […] di esprimere l’inesprimibile, ciò che è di per sé illeggibile, una volta stabilito che né l’italiano, né il latino, né il dialetto (lingua che forse prevale a livello inconscio, ma non per questo sarà da lui mitizzata) sono sufficienti a dar conto della catastrofe assoluta, del “tappeto marcio di futuro” cui si vorrebbe, ancora e malgrado tutto, dar voce.
Non credo che nel frattempo il mondo sia uscito dal coma, qualunque cosa potesse intendere Zanzotto con quella espressione. Credo però che qualche sospiro, qualche lamento, qualche battito ci giunga da quel coma, che ci siano impulsi registrabili nell’elettrocardiogramma del mondo e che nessuno abbia saputo tradurre in parole quegli impulsi con la «chiarità di idea» con qui lo ha fatto negli anni Zanzotto. La sua voce (non quella al telefono) era ancora la voce di un cuore.