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un disagio

«In una recente intervista, Jonathan Franzen ha rivelato di sentirsi a disagio davanti alle opere di Caravaggio sapendo che l’artista ha ucciso un uomo.» Comincia così un bell’articolo scritto da Letizia Muratori e pubblicato in questi giorni su Rivista Studio. E io non ho letto né cercato la recente intervista in cui Franzen, autore di romanzi acclamati e lodatissimi, avrebbe detto questa cosa su Caravaggio. E non mi interessa nemmeno troppo cercarla, quell’intervista: perché, ha ragione la Muratori, il punto è probabilmente un altro, e cioè:

 

Premesso tutto questo, Franzen, pur standosene isolato e non connesso, ha un’indiscutibile dote d’interprete della contemporaneità. Con la sua sbalorditiva confessione smaschera una pulsione diffusa, un desiderio con cui bisogna confrontarsi. Larga parte della società in cui viviamo non ammette più condoni, si nutre di una specie di mistica della trasparenza, in qualche modo rivendica il primato dell’etica sull’estetica. Sono convinta che Franzen non avrebbe dichiarato certe cose qualche tempo fa, ma oggi lo fa: è un modo di posizionarsi rispetto a uno scontro in atto.

 

Il punto è proprio la necessità di un posizionamento, anche secondo me. Ed è esattamente a proposito di questo posizionamento che ho sentito il bisogno di scrivere queste pochissime righe, per ricordare a me stesso e per dire a chiunque che io, invece, sto dall’altra parte.

 

Che di Caravaggio amo esattamente quel demone, quello che lo ha fatto uccidere e fuggire e morire, che vedo nei suoi dipinti, che sento nei suoi cadaveri di sante Lucie, nei culi enormi dei suoi boia, nei piedi luridi dei carnefici e in quelli delle sue madonne. Così come mi accade con Houellebecq; o con Pasolini (che di demoni, ahimè, se ne intendeva parecchio…). Così come per esempio non mi stanco di sentirlo, quel demone malvagio, nell’equilibrio cristallino della poesia di Petrarca (chierico ricco di denaro e di figli illegittimi): il male che la increspa, lo scricchiolio che fa tremare la forma limpidissima e glaciale, il rumore sinistro e funereo che sta appena dietro l’armonia perfetta del suono dei suoi sospiri.

 

E non riesco davvero a non sapere (non voglio non saperlo) che la «selva oscura» di Dante Alighieri, proprio quella selva oscura, altro non è che quello stesso male, il demone, l’incontro con  la bestia (che poi sono tre bestie, infatti…) che abita il nostro inferno, il nostro male, che abita noi che nei secoli non sappiamo liberarcene. E così mi succede con tutti i grandi letterati che amo, con i film e anche con le canzoni (avete sentito l’ultimo disco di Bertrand Cantat?) e con i comici (in effetti è anche di Louis CK che sto parlando, che recitava il suo stesso male…), e pure con il poeta dell’«armonia» per eccellenza, che è Ariosto, che nelle Satire ha rivelato il suo male, la misantropia, la misoginia, il ghigno scettico, il suo personale demone della sua personale bruttezza.

 

Questo racconta spesso l’arte, questo mette in scena sulle sue pagine, nei suoi dipinti, tra le sue note: il male che ci abita, quello che siamo. Il resto è altro, magari aiuta nel tempo libero, ma non ci mette a disagio. Che poi, a leggere bene, è proprio quello che avrebbe detto di sentire Franzen davanti a un quadro di Caravaggio: un disagio. Proprio quello che accade a me, insomma; e che io amo che mi accada.

Davide Profumo
Davide Profumo
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