Mi capita, una o due o forse anche tre volte l’anno, di riprendere in mano un romanzo di Leonardo Sciascia, sempre lo stesso, e di rileggerne qualche pagina, aprendolo a caso, quasi senza pensarci, addirittura pensando ad altro, perché conosco bene quel romanzo, perché so dove portano quelle pagine aperte a caso, perché è solo un modo per godermi, una o due o forse tre volte l’anno, la sua compagnia, come se fosse un mio caro amico.
Il romanzo è A ciascuno il suo, con quel finale beffardo e terribile, a cui ogni pagina conduce inesorabile, anche a leggerlo distrattamente; e però, il finale, io non lo rileggo mai, perché me lo godo di più così, semplicemente a immaginarlo, a sapere che c’è. E però, questa abitudine che ho preso di rileggerne pagine a caso, ha fatto sì che, ogni volta che io leggo il nome di Leonardo Sciascia da qualche parte, sul web o sulla carta, mi senta obbligato a fermarmi, a cercare di capire meglio, a provare a vedere se c’è qualcosa che mi aiuterà a capire di più.
E in questo mese ho incontrato ben due articoli che mi sono piaciuti e da cui ho pensato di avere imparato qualcosa di necessario, su Sciascia, sulla Sicilia (in cui abito), su di me. Il primo riporta queste parole dello scrittore che non conoscevo o che forse avevo colpevolmente dimenticato. Dicono così:
«mi pare di avere qualche tratto di Maigret; il colpevole non mi interessa, ma mi interessa invece studiare una situazione, un “contesto”»
Ed è un articolo ben scritto da Salvatore Silvano Nigro, che associa Sciascia a Borges e a Manganelli, che ne esplicita alcuni procedimenti narrativi magari ovvi, ma senz’altro ben degni di essere un’altra volta sottolineati:
Sciascia considerava I fratelli Karamazov e Delitto e castigo di Dostoevskij i due più grandi romanzi polizieschi della letteratura universale. E inneggiava a Gadda che, con Il pasticciaccio brutto de via Merulana aveva scritto «il più assoluto “giallo” che sia mai stato scritto, un “giallo” senza soluzione, un pasticciaccio. Che può anche essere inteso come parabola, di fronte alla realtà come nei riguardi della letteratura, dell’impossibilità di esistenza del “giallo” in un paese come il nostro…»
Il secondo articolo è invece un po’ più particolare, ma altrettanto fecondo di spunti. Racconta la casa che fu di Leonardo Sciascia, quella in cui viveva e in cui scriveva, quella da cui guardava la Sicilia e quindi da cui guardava il mondo, il suo contesto, il luogo dove gli era capitato di nascere e di vivere, metafora di un tutto pur sempre incomprensibile come un garbuglio. E a un certo punto vi si scrive così, in questo post sulla geografia esistenziale di Leonardo Sciascia:
Dalla casa della Noce si vede tutto intorno, a trecentosessanta gradi. Se potessimo definire uno scrittore da ciò che vede dal posto in cui scrive, la vista panoramica di Sciascia potrebbe sovrapporsi perfettamente ai temi e alle figure della sua opera. Sciascia, dalla Noce, vedeva tutto: la villa del barone e quella del mafioso, il paese vicino e le campagne intorno, alberi, colline, e in fondo i Monti Sicani. Sciascia vedeva tutto, tranne il mare, come se fosse prigioniero di questa isola, della sua storia e delle sue contraddizioni, della sua bellezza e della sua arroganza.
E non ho più smesso di pensare a questo dettaglio così intimamente siciliano («tutto, tranne il mare») e ho pensato, io che ho scelto di abitare nella stessa Sicilia un po’ lontana dal mare, che stasera, finite le poche cose che mi restano da fare, riaprirò quel libro, una pagina a caso, e che sarà la prima volta che lo faccio nel 2018, e che era davvero il momento di farlo.