facce che non lo sono
25 Marzo 2020i ritagli di marzo
1 Aprile 2020Ai miei studenti che vengono talvolta da me e provano a raccontarmi una loro angoscia, una pena d’amore, una difficoltà nell’amicizia o un lungo insopportabile silenzio in famiglia, dico spesso che hanno bisogno di parole. Ai miei studenti che si chiedono a cosa possa loro mai servire studiare Orazio, Ariosto o Italo Calvino, dico che avranno, presto o tardi, bisogno di parole per descrivere le loro angosce, i loro sentimenti. E gli racconto che mi è tante volte capitato, negli anni, che sia bastato trovare una parola o una metafora per superare un momento di ansia, per spiegarmelo e comprenderlo, per scendere a patti con lui e accettarlo (ho smesso di fumare, il giorno che ho trovato per caso la metafora giusta…).
Ma la parola giusta non è facile da trovare, mi dicono loro. Lo so bene, gli dico io mentre gli accarezzo la testa e gli sorrido (ed è la cosa che non posso fare, in questi giorni, la mia nostalgia).
E anche a noi, che oggi ci guardiamo negli specchi delle nostre case, sempre gli stessi specchi, e ci chiediamo come mai, quando e fino a quando, e come sia stato possibile che, vorrei dire la stessa cosa: forse abbiamo bisogno di qualche parola, forse quelle che stiamo usando non vanno ancora bene.
Non va bene il lessico militare per esempio: non vanno bene le parole «guerra», non c’entrano niente gli «eroi», non dobbiamo «obbedienza» a nessuno, e nessuno è il «soldato» di nessun altro. E sono stanco di queste parole e sono felice che questa cosa sia stata scritta (e divulgata, da un paio di amiche, su un social network affollatissimo); e il mio link di oggi è propri per questa considerazione, che esclude le parole sbagliate, che ci invita ad abbandonare una metafora sbagliata che rischia di non farci capire, che è il primo passo per non guarire. È un articolo di Daniele Cassandro (lo trovate qui) a cui mi riferisco, entro il quale potete leggere così:
Da giorni basta aprire un giornale, scorrere le notizie sul telefono, guardare un notiziario in tv per sentirci dire che siamo in guerra. L’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra; ogni sera la Protezione civile dirama un bollettino con il numero dei morti e dei contagiati che aspettiamo col fiato sospeso. Lo scrittore Sandro Veronesi ha anche detto che sogna “una Radio Londra che ogni sera alle sette annunci i passi avanti che ogni centro di ricerca ha mosso quel giorno”.
Nel suo saggio Malattia come metafora (1978) Susan Sontag ha smontato con acume critico ed empatia questo modo di rappresentare, e rappresentarsi, il male. […] Trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate.
Ma non è tutto qui. Perché oggi, a dare consistenza al mio lieve desiderio di trattare me e voi come studenti di fronte a un buio, che vanno a chiedere aiuto, oggi ho letto una specie di piccolo e agile glossario compilato da Emma Dante (lo trovate qui). «Lessico dei giorni di crisi», lo ha intitolato la sua autrice; ed è proprio un elenco di possibili parole, una minima trama, uno scheletro, il primo tentativo di inanellare i termini con cui possiamo cominciare a raccontarci (a noi e tra di noi) la crisi, la pandemia, il virus, l’isolamento, la quarantena, la solitudine.
Non tutte le parole scelta da Emma Dante mi piacciono, non tutte mi convincono. Ma «nostalgia» e «misericordia» sì, per esempio, sono le mie parole preferite in questi giorni, quelle a cui mi sono dovuto aggrappare quando ho avuto momenti di disfattismo e debolezza. E anche «umanità», per come lei l’ha spiegata, mi è piaciuta subito, anche «umanità» è una parola che ho trovato per me stesso. Avrei voluto che ci fosse «corpo», invece: perché è della vicinanza fisica degli altri che mi pare di sentire la mia nostalgia, di cui si nutre la mia malinconia. Ma alla lettera C avrei voluto anche mettere «cielo», perché è la prima cosa che guardo ogni mattina, il cielo, non so perché, forse perché cerco risposte, forse perché so che non le troverò
Ma insomma, è inutile che vi annoi con le mie personali parole, avete già quelle di Emma Dante. E potrete pensare alle vostre, compilare anche voi un minimo vocabolario personale della quarantena, ma soprattutto abbiamo bisogno di parole comuni, che siano «nostre», di un lessico condiviso e di metafore che ci raccontino meglio questi nostri giorni rispetto a quelle che finora abbiamo usato. A cosa serve leggere Orazio, Ariosto e Italo Calvino, mi chiedono gli studenti. A trovare le parole giuste, le metafore giuste, a raccontarsi bene i propri sentimenti e i sentimenti che vagano incompresi nel mondo e nel cielo, rispondo io.