più ombre che nebbia
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6 Dicembre 2015Lo ammetto subito, e anche se magari me ne vergogno un po’ farò finta di esserne fiero e di non pensare affatto di essere stato un ingenuo: io, da ragazzo, sono stato un appassionato lettore di Steinbeck E non solo, ahimè: finché ne ho avuto la forza, da adulto, sono stato anche un insegnante di letteratura che faceva leggere Steinbeck ai suoi alunni di prima e seconda liceo, negli anni ’90. Poi ho smesso.
Ma quando li leggevo, però, avevo quattordici anni, non sapevo nemmeno bene cosa fosse la letteratura, lo stavo imparando: e quelle pagine, inutile fare finta di no, mi aiutarono parecchio. Proprio perché un po’ eccessive e retoriche e «facili», furono per me una rivelazione. E per anni ho pensato che avrebbero potuto esserlo pure per altri ragazzini del liceo, quando io ero un giovane adulto: ma non lo furono. Cambiano i ragazzi, gli anni, i libri, cambiano anche i licei…
Però, proprio per questo, ho letto con cenni silenziosi di assenso il pezzo che oggi Claudio Giunta ha scritto proprio a proposito di Steinbeck e di alcuni dei suoi romanzi più celebri e (un tempo, quando ero giovane io) anche celebrati. Ve ne propongo, quasi compiaciuto, un passaggio (e dunque un implicito invito a riprendere in mano alcuni di questi romanzi, per vedere l’effetto che ci possono fare ora, mentre tutto intorno è cambiato e sta cambiando):
Oggi nei paesi anglosassoni i romanzi di Steinbeck continuano vendere molto, e ad essere letti soprattutto a scuola. Uomini e topi, in particolare, è breve, semplice, dice una cosa chiara, è il libro ideale da assegnare alle matricole per una tesina. La cosa chiara che dice Uomini e topi la dice anche Furore: bisogna comportarsi in maniera umana, bisogna essere gentili con le persone in difficoltà, quelli che stanno bene devono aiutare quelli che stanno male. Troppo semplice, troppo ingenuo? Presso i critici, i lettori maturi, Steinbeck non gode di buona stampa, non ne godeva già negli anni Quaranta e Cinquanta, quando Edmund Wilson lo liquidava come «uno scrittore di secondo o terz’ordine». Troppo rozzo, ideologico, predicatorio, troppo dedito al “messaggio”, e i suoi libri troppo saturi di personaggi nei quali – come Lawrence diceva dei Malavoglia di Verga – l’autore travasa la propria intelligenza e il proprio senso tragico, attribuendo loro una consapevolezza di sé che non è credibile possano avere.
Insomma, io da ragazzo giovanissimo mi innamorai di Uomini e topi (perché era più facile? Ora come ora, lo ammetto, non lo so…) ma Furore è probabilmente il romanzo che dovrebbe ancora essere letto. Anche perché le migrazioni di uomini, per esempio, non sono finite., tutt’altro. E quindi, se un altro consiglio non è di troppo, propongo anche una colonna sonora, nemmeno troppo originale, da ascoltare mentre si legge il romanzo ( o si guarda il film, come vorrebbe Giunta, forse non a torto). Parla di Tom Joad, che era il protagonista di quel fluviale romanzo di Steinbeck, e fu un disco che amai molto, anche quello a suo tempo, quando consigliavo il romanzo ai miei alunni senza riscuoterne alcun tipo di consenso.
[Però, oggi, non posso fare finta di niente e parlare solo di libri: e un piccolo passaggio sull’attualità me lo voglio dunque concedere. Si è aperto il Giubileo, infatti. E io ho trovato piuttosto interessante questa rapida intervista, che non dice cosa sia il Giubileo (ci mancherebbe, per quello ci sono i teologi), ma aiuta a farsene un’idea in prospettiva storica, a capire magari a cosa è servito negli anni, più che altro, e perché.]
[E poi, cambiando purtroppo di tono e di registro e passando alle cose più serie: c’è un racconto che vorrei che voi medici, che mi affidate questa piccola pagina, trovaste il tempo di leggere, oggi o nei prossimi giorni. Perché parla di malattia (che è la vostra terra, insieme a quella assai più bella della salute), ma anche e soprattutto perché parla di ospedali, che sono i luoghi in cui voi lavorate e costruite il vostro lavoro e in cui noi entriamo sperando che il vostro lavoro ci sia, improvvisamente, utile. È il racconto di una malattia grave e di una morte, non vi metterà di buon umore, mi dispiace. Ma vale la pena, secondo me. Per tante ragioni che forse condividerete con me quando lo avrete finito. Inizia (anche se non è proprio l’inizio) così:
Ho poco da dire sulla malattia di mia mamma: ha avuto un glioblastoma, che è un tumore al cervello che in media lascia poco più di un anno di vita da quando si manifesta. Non si cura in nessun modo, colpisce una persona ogni diecimila e non dipende dallo stile di vita. Se non fossi ateo, direi che ha tutte le caratteristiche di un castigo divino, ma al rallentatore. Ecco, il rallentatore è un’immagine adatta per definire l’ultimo anno che abbiamo vissuto, come famiglia (concetto da noi molto minimale: mia madre, la mia compagna e io, figlio unico). Gestire un tumore che non ti inchioda a un letto d’ospedale in Italia è prima di tutto un’impresa logistica di portata enorme. E poi è una grande fatica materiale, oltre che psicologica…]