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tre ritratti e uno specchio

È molto difficile disegnare un ritratto con le parole. Perché le sintesi sono sempre complicate, perché le parole tendono a moltiplicarsi inutilmente (come queste), perché racchiudere il percorso di un uomo entro pochi paragrafi è un’impresa quasi titanica, perché qualcosa sfuggirà sempre ed è esattamente il qualcosa che è sfuggito che le parole del ritrattista devono essere capaci di indicare al lettore: quello che volevo dire è laggiù, non sono stato capace di dirlo, ma forse, se lo insegui rapidamente, forse puoi ancora raggiungerlo…

Per questa sensazione di inevitabile fallimento del ritrattista, che sempre ho (che ho soprattutto a scuola, quando nel giro di poche ore, tra penne che cadono, banchi che cigolano, porte che si aprono e campanelle che suonano, devo  costruire  i profili di Leopardi o Petrarca o Montale), amo molto i ritratti che trovo sul web, che magari raccontano in poche righe uno scrittore, ma non solo uno scrittore.

Eccone qui uno, per esempio. Dice che non dobbiamo dimenticarci di leggere Ivo Andrić, lo scrittore che ha raccontato i Balcani (cuore dell’Europa, secondo me; sapete già che lo penso) come probabilmente nessun altro. E lo fa a partire da una pubblicazione recentissima di un suo racconto lungo, la storia di uomo che a Belgrado divenne eroe senza capirlo, senza volerlo, edito grazie a un piccolo editore friulano che meriterà tutta la nostra attenzione nel prossimo futuro.

Il ritratto di Andrić (lo trovate qui) è scritto da Raoul Precht e parte dal momento più oscuro della vita letteraria e politica dello scrittore, per dirci che forse l’essenza era altrove, che forse qualcosa poteva indicarci di guardare più in là:

Nel 1948, nel pieno di una crisi creativa ed esistenziale che lo porta ad allinearsi stilisticamente alle più viete posizioni del realismo socialista, Ivo Andrić tira fuori dal suo cappello da prestigiatore un racconto lungo (o romanzo breve, a scelta) che si situa in perfetta controtendenza rispetto alle altre narrazioni dello stesso periodo. È una mia liberissima interpretazione, si badi bene, ma mi sembra che questo racconto, La vita di Isidor Katanić (nell’originale Zeko), possa aver rappresentato una specie di contrita abiura degli altri testi ad esso contemporanei e al tempo stesso un messaggio di Andrić al lettore, quasi a volergli significare che la diritta via non era andata del tutto smarrita…

Dall’Est europeo arriva a anche l’altro scrittore, di cui ho letto in questi giorni un bel ritratto, e che è una scrittrice. Si chiama Ágota Kristóf, ne ho altre volte scritto qui sopra (perché la amo particolarmente…), è autrice di alcuni tra i romanzi più belli degli ultimi trent’anni, tra cui senz’altro Trilogia della città di K. (di cui si parla qui sotto) e l’ancor più estremo Ieri. Il suo ritratto, disegnato con nitida delicatezza da Anna Toscano, lo trovate qui; ma è anche il ritratto di tanti autoritratti, gli stessi che Kristóf ha negli anni labirinticamente costruito celandosi dietro ogni suo personaggio, frantumando la propria sofferenza in quelle terribili delle misteriose marionette senza fili protagoniste delle sue storie. Tanto che a un certo punto Anna Toscano può dire così:

Nelle sue tre parti il romanzo sfida la logica del lettore, gioca col senso apparente della storia, accenna senza rivelare tempi e luoghi della Storia, racconta orrori e dolori della guerra, dell’occupazione, della miseria. È un romanzo scioccante, estremo, capace di parlare del dolore e della ferocia con spietata essenzialità. Qual è il percorso dell’autrice di questo libro, cosa l’ha portata a narrare fatti così diversi sfidando il lettore – un lettore abituato a volere che i conti tornino e forse, troppo spesso, con una certa facilità – con una lettura impervia? Ad Ágota Kristóf che i conti tornino al lettore, che la narrazione sia logica e agile probabilmente non interessava perché, probabilmente, quel che le premeva era raccontare la sua storia rifratta in una quantità di ricostruzioni diverse.

E infine, l’ultimo ritratto. Che sembra più leggero anche se probabilmente non lo è: perché parla di un calcatore, anzi del calciatore. Lo ha scritto Gianni Montieri, scandendolo in tre esemplari atti calcistici (ma non solo), ed è anche un autoritratto (lo trovate qui):

Maradona ci ha insegnato a sognare, ci ha uniti nel segno di qualcosa, quel qualcosa era lui che poteva arrivare fino in porta palla al piede, in qualsiasi momento. Quella ragazza che ci piaceva tanto ci avrebbe baciato, l’interrogazione del giorno dopo sarebbe andata bene, per non dire del compito di matematica. Avremmo avuto vite migliori perché Maradona stava dalla nostra parte, era nostro. Non del Napoli o della città, era di ciascuno di noi.

Ma forse è per questo che mi piacciono e che è difficile disegnare ritratti con le parole. Perché esistono soltanto autoritratti. E ogni volta, quando abbiamo finito di cercare e trovare le parole che ci servivano, guadiamo la pagina e quello che le parole hanno costruito è semplicemente uno specchio. In cui ci riconosciamo, in cui non ci riconosciamo abbastanza.

Davide Profumo
Davide Profumo
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