Non fu vano? (su Mario Luzi)
20 Ottobre 2014Sfortune letterarie
26 Ottobre 2014Provo oggi a consigliare, per il fine settimana che si avvicina e che ci regalerà un’ora di tempo festivo in più, tre libri molto diversi tra loro. Uno lo sto leggendo ora, un altro l’ho letto più e più volte, un terzo ho intenzione di acquistarlo e leggerlo al più presto. Ma naturalmente non vi dirò quale dei tre sia uno o l’altro… (anche se, temo, lo capirete prestissimo). Ma visto che l’Oblò è un luogo di «guardoni» che sbirciano il web cercandone spunti interessanti, non vi presenterò nessuno dei tre libri e lascerò invece che siano altri recensori a farlo.
C’è dunque un primo libro, che è un libro vecchio, vecchissimo. Ma sta uscendo una nuova edizione dei Promessi sposi del solito Alessandro Manzoni (sempre lui…) e non ho resistito. Anche perché la presentazione che ho trovato è lunghetta e difficilotta (ehm…) ma davvero bella, interessante e importante. La consiglio (se non il romanzo, almeno la presentazione). E sappiate che a un certo punto dice così:
Manzoni non è, come ci hanno voluto far credere a scuola, uno sgobbone. Non è una vestale della fede, né un restauratore della lingua, né un ferrivecchi dei topoi. Tanto che, quando don Ferrante esce di scena tra i motivi del melodramma di Metastasio e i toni dell’opera buffa, alla sua biblioteca spetta, nel sigillo del penultimo capitolo, il micidiale contrappasso di una metamorfosi in rigatteria bibliografica, sparpagliata sui muriccioli dei navigli. Così il Seicento muore due volte: settecentescamente, nel corpo chantant del personaggio; ottocentescamente, nella dispersione prosaica, e soprattutto nella borghesissima svalutazione, della sua collezione libraria. Qualcosa di simile, lo sappiamo, dovrà toccare a molte altre biblioteche letterarie, a simboleggiare il liberatorio, o piuttosto distopico, autodafé di un qualche sapere dottrinale: così al maestoso in-folio squartato dai bambini terribili di Novantatré di Victor Hugo, o ai volumi lasciati in eredità dall’aristocratico luminare della Sirena di Tomasi di Lampedusa, e abbandonati poi a marcire negli scantinati dell’Università. È il destino leggero a cui sono condannati tutti i libri, se non accolgono una qualche verità che trascende il loro tempo; e se qualcuno non si assume il rischio di amplificarne la voce sottile, dentro il rumore del presente.
Altrettanto efficace (ma assai più breve, quasi fulminea) è la recensione che Annalena Benini ha scritto dell’ultimo romanzo di Domenico Starnone, che si intitola Lacci. Storia di un tradimento, di una separazione, forse di una riconciliazione, presentata da lei benissimo così:
“Lacci” è la storia spietata e precisa del rumore profondo che fa un matrimonio quando si spezza, e della ferita che porta con sé anche quando si è deciso, con sofferenza, di ricominciare, di tornare ognuno al proprio posto: a casa, con i figli, con una moglie consumata dal dolore e dalla rabbia, che ha perso il suo splendore, e di cui lui non ricorda più nemmeno un minuto di splendore. Domenico Starnone ha dato voce a tutti, ha dato a ciascuno una risposta al dolore: ai figli bambini e poi adulti, alla moglie giovane e poi anziana (“ora che sono vicina agli ottant’anni, posso dire che della mia vita non mi piace niente”), e al marito, padre, amante, Aldo, che si muove fra loro come un sonnambulo, schiacciato da quello che ha fatto, e poi dal suo sacrificio, dal fallimento della felicità, propria e altrui, dalle cose da restituire e quelle da sacrificare, e dalla paura che tutto di nuovo lo travolga, e faccia ancora male.
Infine c’è il nuovo libro di Dario Bressanini, che di nuovo mescola scienza e gastronomia, ma questa volta non lasciando mai il dolce pendio dei dessert. Un viaggio tra i dolci che ci possiamo senz’altro permettere, dopo tutte le amarezze del quotidiano. Ne parla il medesimo autore qui, scrivendo così di sé stesso e del suo libro:
C’era proprio bisogno di un altro libro di cucina? Scritto poi da uno che cuoco non è e nemmeno pasticcere, ma fa il chimico? La mia risposta è ovviamente sì e non posso fare a meno di spiegarvi perché ho deciso di scriverlo e perché, forse con poca modestia, ritengo che sia diverso da tutti gli altri libri di pasticceria che avete nella vostra libreria. La stragrande maggioranza dei libri di cucina si sofferma sul quanto (“prendete 100 g di olio, due cipolle e un pizzico di sale”) e sul quando (“fate bollire per 30 minuti”, “infornate per un’ora”), non sempre sul come (“cuocete a fuoco alto”, sì ma a che temperatura esattamente? È importante?) e praticamente mai sul perché (“aggiungete un pizzico di sale”, “aggiungete 20 g di bicarbonato”, “coprite il basilico con l’olio”, sì ma perché?). Ecco, questo è un libro che spiega i perché delle cose, una sorta di manuale di istruzioni per tutte le ricette già scritte e per quelle ancora da inventare ma che necessariamente seguono gli stessi principi chimici e fisici.”
Ecco, direi che il fine settimana è salvo, anche se dovesse piovere: abbiamo da leggere e abbiamo da pensare, e anche da cucinare e mangiare. E se poi vi fosse sembrato, leggendo, che io mi sia lasciato sfuggire un piccolo errore di ortografia, ecco, siete stati pure bravi notarlo ma, mi dispiace, era quello il tranello del titolo. La cui spiegazione, per chi non avesse tempo di leggere lunghi romanzi dell’Ottocento e stesse invece soltanto cercando un breve articolo per riempire un’ora in più, è questa: e forse anch’essa, non lo so, potrà esser utile a qualcuno.