27 – 28 novembre 2009 – Aterosclerosi e trombosi meccanismi fisiopatologici e progressi clinici
28 Novembre 2009
Clopidogrel e inibitori di pompa protonica: la storia continua
23 Dicembre 2009
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23 Dicembre 2009

Trattamento antitrombotico ottimale in corso di PCI primaria nello stemi: conferma ad 1 anno dei risultati a 30 giorni dello studio horizons-ami

Trattamento antitrombotico ottimale in corso di PCI primaria nello stemi: conferma ad 1 anno dei risultati a 30 giorni dello studio horizons-ami
Alessandro Politi
S.C. di Cardiologia,  Ospedale “Moriggia-Pelascini” – Italia Hospital. Gravedona (Co)

 

Nei pazienti con STEMI sottoposti a PCI primaria, l’anticoagulazione con bivalirudina ha ridotto il numero di “net adverse clinical events” e sanguinamenti maggiori ad 1 anno rispetto al trattamento con eparina non frazionata associata agli inibitori delle glicoproteine IIb/IIIa. Questa dimostrazione ha importanti implicazioni cliniche per la selezione di una strategia di trattamento ottimale per tali pazienti.

Gli inibitori delle glicoproteine IIb/IIIa (GPI) sono frequentemente usati nei pazienti con infarto miocardico acuto con ST sopraslivellato (STEMI) trattati con angioplastica (PCI) primaria, allo scopo di ridurre le complicanze ischemiche (1). Tali farmaci aumentano però il rischio di complicanze emorragiche e di piastrinopenia., fortemente associati entrambi ad una aumentata mortalità precoce e tardiva (2). La bivalirudina, inibitore diretto della trombina, quando usata in alternativa alla eparina associata a GPI durante PCI, riduce i sanguinamenti minori e maggiori in un vasto spettro di pazienti con coronaropatia (3, 4, 5). Nello studio prospettico randomizzato controllato multicentrico HORIZONS-AMI (Harmonizing Outcomes with Revascularization and Stents in Acute Myocardial Infarction), pazienti con STEMI sottoposti a trattamento con PCI primaria, furono randomizzati a ricevere bivaluridina da sola o eparina associata a GPI. I pazienti del gruppo bivalirudina presentarono meno sanguinamenti maggiori a 30 giorni e piastrinopenia, stesso numero di eventi ischemici e sopravvivenza maggiore rispetto al gruppo eparina con GPI (5). Recentemente una sottoanalisi dello stesso studio, che si proponeva di valutare l’impatto della dose carico di clopidogrel di 600 mg vs 300 mg a discrezione dello sperimentatore sull’outcome a 30 giorni è stata pubblicata su JACC (6), essendo stata anche oggetto di attenzione in una recente newsletter di D’Elia pubblicata in questo stesso sito. Sulla totalità dei pazienti dello studio, 1153 hanno ricevuto il carico di clopidogrel di 300 mg mentre 2158 il dosaggio doppio di 600 mg: in questo secondo gruppo di pazienti si è avuta una significativa riduzione a 30 giorni di mortalità, re-infarto e trombosi intrastent (ST), rispettivamente di 1.9% vs 3.1%, 1.3 % vs 2.3 % e 1.7 % vs 2.8 %. In aggiunta, all’analisi multivariata, il dosaggio di carico di 600 mg è risultato essere predittore indipendente di libertà da eventi avversi cardiovascolari maggiori (MACE) a 30 giorni. Di particolare interesse il fatto che la dose doppia di clopidogrel non è associata ad un più elevato rischio di sanguinamento maggiore o di trombocitopenia, con un conseguente “net clinical end-point” favorevole.
Sul numero di The Lancet del 3 ottobre 2009 sono invece stati pubblicati i risultati ad un anno dell’HORIZONS-AMI (7), oggetto di questo “focus on”. Si ricorda che nello studio erano stati arruolati pazienti presentatisi con STEMI entro 12 ore dall’esordio dei sintomi con esclusione di quelli che avevano controindicazioni all’utilizzo di uno dei farmaci in studio o che erano per l’evento index in precedenza stati trattati con fibrinolitici, bivaluridina, GPI, eparina frazionata o fondaparinux, mentre era ammesso un precedente trattamento con eparina non frazionata. Anche un uso corrente di warfarin, una storia di diatesi emorragica, qualunque condizione predisponente ad un rischio emorragico o il rifiuto di ricevere trasfusioni di sangue, nonché una conta piastrinica inferiore a 100.000/mm3 o concentrazione emoglobinica inferiore a 10 gm/100 ml rappresentavano criteri di esclusione. I pazienti erano assegnati, dopo randomizzazione, a ricevere “open-label” bivaluridina da sola (bolo endovenoso di 0.75 mg/kg seguito da una infusione di 1.75 mg/kg per ora) oppure (popolazione di controllo) eparina (bolo endovenoso di 60 UI/kg seguito da boli successivi con ACT target di 200-250 sec) più GPI (abciximab 0.25 mg/kg in bolo seguito da infusione di 0.125 γ/kg/min, massimo 10 γ/min per 12 ore oppure eptifibatide in doppio bolo di 180 γ/kg ad intervalli di 10 min più infusione di 2.0 γ/kg/min per 12-18 ore, a dose eventualmente aggiustata secondo la funzione renale) in un rapporto 1:1. Dopo l’angiografia i pazienti che venivano trattati con PCI erano assegnati, nuovamente in modo randomizzato, secondo un rapporto 3:1, a “paclitaxel-eluting”stent (TAXUS) oppure all’identico “uncoated bare-metal” stent (EXPRESS). Sia la bivalirudina che l’eparina erano interrotti secondo protocollo alla fine della procedura, ma potevano essere continuati a bassa dose. Inoltre un GPI poteva essere impiegato in “bail-out” anche nel gruppo trattato con bivaluridina, solo se in presenza di “no-reflow” o di trombo gigante. L’aspirina (325 mg masticata o 500 mg endovenosa) era somministrata precocemete, seguita da 300-325 mg al giorno per os durante la degenza ospedaliera e 75-81 mg successivamente, indefinitamente. Una dose carico di clopidogrel (300 mg oppure 600 mg a discrezione dello sperimentatore, come abbiamo in precedenza visto) era somministrata prima dell’inserimento del catetere, seguita da 75 mg al giorno per os per almeno 6 mesi. La doppia antiaggregazione era raccomandata per 1 anno o più. Uno schema dinamico di allocazione era utilizzato per bilanciare la randomizzazione per la somministrazione di eparina prerandomizzazione, la somministrazione di 300 piuttosto che 600 mg in bolo di clopidogrel e di abciximab piuttosto che di eptifibatide nei controlli. Due end-.points primari erano prespecificati: sanguinamenti maggiori (non correlati a CABG) e “net adverse clinical events” (NACE: sanguinamenti maggiori o il composito di “major adverse clinical events” [MACE: morte, reinfarto, rivascolarizzazione per ischemia del vaso target, oppure stroke]). I sanguinamenti oltre che secondo i criteri prestabiliti dal protocollo erano anche valutati ed aggiudicati secondo i criteri TIMI e GUSTO. L’analisi secondo “intention to treat”, prespecificata, ora pubblicata su The Lancet, riporta questi end-points valutati ad 1 anno di follow-up.
Dei 3602 pazienti “eligible” arruolati in 124 centri di 11 nazioni (1800 bivaluridina e 1802 controlli), dopo l’angiografia coronarica in emergenza, 1675 del gruppo bivalirudina furono trattati con PCI e di questi 126 (7.5%) ricevettero un GPI durante la procedura in “bai-out”, mentre dei 1664 controlli trattati con PCI 1625 (97.7%) ricevettero un GPI (abciximab 52%, eptifibatide 45.6% e tirofiban 0.2%) secondo protocollo. Ad 1 anno i pazienti assegnati a bivaluridina ebbero NACE minori rispetto ai controlli (15.6% vs 18.3%, HR 0.83, 95% CI 0.71-0.97, p=0.022) come conseguenza di un più basso numero di sanguinamenti maggiori (5.8% vs 9.2%, HR 0.61, 95% CI 0.48-0.78, p<0.0001), con un numero di MACE uguale nei 2 gruppi (11.9% vs 11.9%, HR 1.00, 95% CI 0.82-1.21, p=0.98). Il numero di sanguinamenti maggiori (e minori) secondo protocollo, meno frequente nel gruppo trattato con bivalirudina lo era anche secondo i criteri TIMI e GUSTO. Ad 1 anno, la mortalità cardiaca era più bassa nel gruppo trattato che nei controlli (2.1% vs 3.8%, HR 0.57, 95% CI 0.38-0.84, p=0.005), così come la mortalità totale (3.5% vs 4.8%, HR 0.71, 95% CI 0.51-0.98, p=0.037). La riduzione di mortalità ad 1 anno era indipendente dal tipo di stent utilizzato. L’assegnazione al gruppo bivaluridina piuttosto che a quello controllo rimaneva ad 1 anno predittore indipendente di sopravvivenza in un analisi multivariata prespecificata. Ad 1 anno i pazienti trattati avevano anche un numero di infarti non-Q minore, così come del composito morte o reinfarto, rispetto ai controlli. Il numero di ST era simile nei 2 gruppi. Il numero di rivascolarizzazioni della lesione target era maggiore nel gruppo trattato con bivalirudina (p=0.051) rispetto a quello di controllo, mentre il composito non differiva nei 2 gruppi. La mortalità cardiaca, il reinfarto ed il composito morte o reinfarto erano meno frequenti tra 30 giorni ed 1 anno nei pazienti trattati. I pazienti con sanguinamenti maggiori ebbero ad 1 anno mortalità (cardiaca e non), reinfarto (sia Q che non Q) e stroke più frequenti dei pazienti senza sanguinamenti maggiori.
In pratica l’anticoagulazione procedurale con l’inibitore trombinico diretto bivaluridina nei pazienti con STEMI sottoposti a PCI primaria ha ridotto il numero dei “net adverse clinical events” e sanguinamenti maggiori ad 1 anno, rispetto al trattamento con eparina e GPI. Anche la mortalità totale e cardiaca ad 1 anno è stata significativamente ridotta nei pazienti trattati rispetto ai controlli. Di più, la differenza rispetto alla sopravvivenza tra i 2 gruppi è andata aumentando tra 30 giorni ed 1 anno con 17 morti cardiache e 13 morti totali evitate ad 1 anno per 1000 pazienti trattati (NNT 59 e rispettivamente 77). L’effetto favorevole della bivalirudina era inoltre indipendente dal tipo di stent utilizzato (DES piuttosto che BMS). La riduzione di mortalità nel gruppo trattato con bivalirudina può essere ascritto alla riduzione delle complicanze emorragiche iatrogene. I numeri relativi alla mortalità totale, cardiaca ed allo stroke erano tutti cinque volte più alti nei pazienti con emorragie maggiori rispetto a quelli senza. Anche la frequenza di reinfarto era doppia. Precedenti trials avevano già descritto una associazione indipendente tra emorragie maggiori (con o senza impiego di emotrasfusioni) e mortalità conseguente in pazienti con sindromi coronariche acute (ACS) ed in quelli trattati con PCI (2, 8, 9). Inoltre, il trattamento con bivalirudina riduceva la piastrinopenia severa associata a più alta mortalità nei pazienti con STEMI e dopo PCI (4, 5). Ed ancora, essendo il reinfarto una delle cause più frequenti di morte dopo PCI primaria, anche la riduzione con bivaluridina dell’infarto non-Q può avere contribuito alla migliore sopravvivenza nel gruppo trattato. I trials REPLACE-2 (3), ACUITY (4), HORIZONS-AMI (7) hanno valutato l’uso di bivalirudina rispetto alla terapia con eparina e GPI nei pazienti con angina stabile, instabile, NSTEMI e STEMI rispettivamente. In una ampia metanalisi (N=18819) di questi tre studi non ancora pubblicata, il trattamento con tale farmaco è associato ad una riduzione non significativa (9%) di mortalità a 30 giorni e significativa (15%) ad 1 anno nei pazienti trattati invasivamente. In precedenza è stato riportato che la ST nelle prime 24 ore era più frequente nei pazienti trattati che nei controlli (5). Tra 24 ore ed 1 anno, invece, la ST era più frequente nel gruppo controllo (46 vs 36 rispettivamente). Come risultato, alla fine del primo anno di follow-up la frequenza di ST era simile nei 2 gruppi (3.1% vs 3.5%, rispettivamente, p=0.53). Di più l’ HR per la mortalità nel primo mese era più alto dopo sanguinamenti maggiori che non dopo reinfarto o ST (5), enfatizzando così l’importanza di selezionare un regime anticoagulante che riduca al minimo le emorragie (la maggior parte delle quali sono iatrogene, causate da intensa anticoagulazione dopo procedure per via femorale), così come le complicanze ischemiche.
Sebbene i meccanismi attraverso i quali le complicanze emorragiche causano o comunque sono associate ad una maggiore mortalità siano sconosciuti, è probabile che essi siano multifattoriali. I suddetti meccanismi potrebbero essere: la rara evenienza di un sanguinamento fatale o minacciante la vita, come una emorragia intracranica; l’ipotensione, l’ischemia o le aritmie conseguenti alla deplezione di volume e/o ridotto apporto di O2 tissutale (particolarmente importante nei vulnerabili pazienti con STEMI); la necessità di procedure per trattare le emorragie maggiori causa esse stesse di complicazioni; l’infiammazione sistemica, la vasocostrizione e la apoptosi conseguente alle trasfusioni; la necessità di interrompere farmaci “evidence-based” quali antiaggreganti, ß-bloccanti ed ACE-inibitori (7). Meno pazienti nel gruppo di trattamento morirono tra 30 giorni ed 1 anno, rispetto al gruppo controllo. Sebbene ciò potrebbe essere frutto del caso, una osservazione simile era riportata nei trials REPLACE-2 (3) ed ACUITY (4). Questi risultati suggeriscono che la prevenzione del sanguinamento precoce riduce la mortalità sia precoce che tardiva. Il sanguinamento precoce potrebbe condizionare la mortalità tardiva attraverso vari meccanismi: prolungato effetto negativo delle trasfusioni e della necessità di interrompere farmaci “evidence-based”, che non verrebbero poi ripresi (5). Inoltre l’evidenza di un minor numero di reinfarti tardivi nel gruppo trattato rispetto a quello di controllo non era stata in precedenza segnalata e necessita di conferme in ulteriori futuri studi.
Tra i limiti dello studio HORIZONS-AMI al primo posto vi è la necessità di un disegno “open-label”, derivante dalla complessità logistica. I potenziali bias derivanti da ciò sono stati mitigati dalla cecità nei confronti del trattamento da parte del personale dei vari “core laboratories”, dello staff di analisi dati, degli statistici e del comitato clinico di aggiudicazione degli eventi. Inoltre tali bias avrebbero dovuto, se presenti, ridursi con il passare del tempo a fronte invece di un ulteriore riduzione di mortalità (evento questo hard di per sè e quindi certamente meno soggetto a bias di valutazione rispetto ad altre componenti meno obiettive dei MACE) tardiva nel gruppo trattato con bivalirudina. Tale fatto rassicura rispetto alla attendibilità dei risultati. Un più lungo follow-up, inoltre, è auspicabile alla luce del dato di riduzione ulteriore di mortalità con il passare del tempo.
Così, l’ analisi ad 1 anno di follow-up dell’HORIZONS-AMI dimostra che in pazienti con STEMI trattati con PCI primaria, l’anticoagulazione con bivalirudina da sola riduce le complicanze emorragiche, il reinfarto tardivo, la mortalità cardiaca e totale precoce e tardiva rispetto ad un trattamento che prevede l’utilizzo di eparina non frazionata associata a GPI.
Bibliografia

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2. Eikelboom JW, Mehta SR, Anand SS, et al. Adverse impact of bleeding on prognosis in patients with acute coronary syndromes. Circulation 2006; 114: 774-782.

3. Lincoff AM, Kleiman NS, Kereiakes DJ, et al. Long-term efficacy of bivalirudin and provisional glycoprotein IIb/IIIa blockade vs heparin and planned glycoprotein IIb/IIIa blockade during percutaneous coronary revascularization: REPLACE-2 randomized trial. JAMA 2004; 292: 696-703.

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8. Manoukian SV, Felt F, Mehran E, et al. Impact of major bleeding on 30-day mortality and clinical outcomes in patients with acute coronary syndromes: an analysis from the ACUITY trial. J Am Coll Cardiol 2007; 49: 1362-1368.

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