Infarto del miocardio, lipoproteina(a) e dimostrazione di una relazione causale: la randomizzazione mendeliana
1 Luglio 2009Lo studio RE-LY
30 Settembre 2009Transfer-AMI – la finestra temporale ottimale per effettuare la PCI dopo uno stemi trattato con trombolisi
Raffaele De Caterina
Cattedra di Cardiologia – Università degli Studi “G. D’annunzio” – Chieti
C/O Ospedale Ss. Annunziata – Via Dei Vestini – 66013 Chieti
Sebbene l’angioplastica con l’uso di stent (percutaneous coronary interventions, PCI) effettuata il più rapidamente possibile nelle prime ore (PCI primaria) è certamente la modalità di trattamento ideale dell’infarto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI), essa richiede modelli organizzativi complessi e una rete dell’emergenza che di regola, tranne poche eccezioni (come la Danimarca e, parzialmente, la Germania), non può coprire capillarmente l’intero territorio nazionale. Nonostante l’aumento numerico notevolissimo dei centri per l’effettuazione di PCI primaria negli Stati Uniti, dati del 2005, peraltro considerati tuttora attendibili, dimostrano che solo il 25% dei pazienti con STEMI ha di fatto avuto accesso alla PCI primaria. Inoltre esistono problemi legati al trasferimento tra un ospedale e l’altro dei pazienti, quantizzati da Nallamothu et al. 1. I tempi di trasferimento nel mondo reale sono più lunghi di quelli dei trial. Dati americani del National Registry of Myocardial Infarction (coorti NRMI-3 and -4) hanno mostrato che, tra 4,278 pazienti con STEMI trasferiti per una PCI primaria, il tempo door-to-balloon mediano era di 180 minuti. Il tempo door-to-balloon, dall’ingresso in ospedale al primo gonfiaggio del palloncino da angioplastica, che oggi viene considerato una misura attendibile dell’efficienza organizzativa della PCI in un ospedale e – per estensione – dell’efficienza cardiologica in genere, è una grossolana sottostima del tempo per la riperfusione, meglio quantizzabile dalla stima del tempo tra l’insorgenza dei sintomi e il gonfiaggio del palloncino (symptom onset-to-balloon), che comprende a sua volta il tempo necessario per l’allerta del sistema sanitario da parte del paziente o dei suoi familiari e il tempo di trasferimento in ospedale. Nelle coorti NRMI-3 e -4, solo il 4.2% dei pazienti venivano trattati entro 90 minuti, che è l’intervallo di tempo raccomandato dalle linee-guida; soltanto il 15% era trattato entro 120 minuti. Gli autori concludevano allora che “il trasferimento dei pazienti per la PCI primaria negli Stati Uniti sta attualmente fallendo nella maggior parte dei pazienti con STEMI nel raggiungere l’obiettivo di ottemperare agli standard di qualità” 2. Questi problemi esistono anche al di fuori degli Stati Uniti, e specificamente anche in Italia, con una notevolissima varietà di modelli organizzativi nelle singole regioni. Per questi motivi la trombolisi farmacologica, effettuata modernamente con l’iniezione endovenosa in bolo di farmaci fibrinolitici fibrino-specifici, rimane un trattamento da non abbandonare. In Italia esistono ancora moltissime realtà periferiche in cui la trombolisi rimane l’unico trattamento praticabile; e anche in aree metropolitane dove esiste una rete per il trasferimento rapido dei pazienti con STEMI è opportuno – come è stato ripetutamente ribadito – che rimanga una pratica e una “cultura” della trombolisi per far fronte ai problemi che possono insorgere quando, per motivi tecnici, logistici o di personale, la PCI primaria diventi improvvisamente e imprevedibilmente indisponibile.
In linea teorica, trombolisi e PCI non sono tecniche alternative. La trombolisi, permettendo una ricanalizzazione del vaso epicardico in circa il 70% dei casi rende più agevole la successiva angioplastica con impianto di stent. L’esecuzione di un’angioplastica rapidamente dopo la trombolisi è riferita come “PCI facilitata”, definita come un trattamento di riperfusione farmacologica somministrato prima di una PCI programmata, durante il ritardo connesso con la PCI stessa. A questo scopo sono stati tentati la trombolisi con dose piena di trombolitici, la combinazione di trombolitici a dosaggio dimezzato in associazione con inibitori della glicoproteina (GP) IIb/IIIa, e gli inibitori della GP IIb/IIIa da soli. Con nessuno di tali trattamenti c’è stata sinora evidenza di beneficio clinico 3, nonostante il fatto che le frequenze di riapertura del vaso fossero più alte, specialmente con i trattamenti basati su trombolitici. Su queste basi di evidenza attualmente la
PCI facilitata, come è stata tentata sinora, non può essere raccomandata 3, 4. Il motivo più probabile è che l’angioplastica fatta in un momento in cui sia ancora presente in circolo il trombolitico o in un milieu ematico ancora fortemente condizionato dalla trombolisi diventa altamente sfavorevole sia per il rischio di complicanze trombotiche che per quello di complicanze emorragiche. Tuttavia rimane valida la possibilità d’intervenire con PCI dopo che gli effetti potenzialmente dannosi della trombolisi sull’angioplastica si siano esauriti. Tale strategia può essere definita “PCI precoce dopo trombolisi”, e ha lo scopo di stabilizzare la lesione colpevole dell’infarto riducendo il rischio di riocclusione e reinfarto. Quale sia l’intervallo ottimale tra la trombolisi e la PCI rimane tuttora argomento di discussione.
In questo contesto è stato pubblicato sul numero del 25 Giugno 2008 del New England Journal of Medicine 5 lo studio TRANSFER-AMI, che mostra un miglior risultato per i pazienti con STEMI trattati con fibrinolisi se vengono trasferiti per una PCI entro 6 ore. Il trial era stato precedentemente presentato al congresso dell’American College of Cardiology del 2008.
Gli autori hanno randomizzato 1059 pazienti con STEMI ad alto rischio che avevano ricevuto una terapia fibrinolitica in centri non dotati di PCI a un trattamento standard (che comprendeva una PCI “di salvataggio”, se necessaria, o un’angiografia ritardata) o a una strategia di trasferimento immediato a un ospedale di riferimento, con una PCI effettuata entro 6 ore dalla fibrinolisi. Tutti i pazienti ricevevano aspirina, tenecteplase ed eparina non frazionata o enoxaparina; veniva anche raccomandato il clopidogrel.
I risultati hanno mostrato una riduzione dell’outcome combinato primario di morte, reinfarto, ricorrenza d’ischemia, scompenso cardiaco di nuova insorgenza o peggiorato, o di shock cardiogeno entro i 30 giorni nel gruppo allocato al trasferimento immediato, con un rischio relativo associato alla PCI precoce di 0.64 (95% CI da 0.47 a 0.87; p=0.004).
Tabella: TRANFSER-AMI: Risultati principali
Outcome Trattamento standard Trasferimento immediato
Pazienti che ricevevano una PCI (%) 67.4 84.
Tempo mediano di cateterismo cardiaco post-randomizzazione (h) 21.9 3.2
End point primario a 30 giorni (%) 17.2 11
C’erano più eventi di sanguinamento lieve, secondo I criteri GUSTO, con la strategia di PCI precoce rispetto alla strategia con trattamento standard (13.0% vs 9.0%, p=0.04), ma non c’erano differenze significative nella frequenza di sanguinamenti maggiori o minori misurati secondo i criteri TIMI, di sanguinamenti moderati o gravi secondo i criteri GUSTO, trasfusioni o emorragie intracraniche. Si è avuto un numero maggiore di morti e di episodi di shock cardiogeno a 30 giorni e un numero maggiore di morti a 6 mesi nella strategia con PCI precoce; tuttavia queste differenze non erano significative. Le informazioni sulla morte e sul reinfarto a 6 mesi, disponibili per 1039 pazienti (98.1%), non mostravano differenze significative.
Gli autori notano che i trial precedenti con una PCI precoce dopo fibrinolisi erano stati condotti prima dell’uso degli stent e non mostravano un beneficio clinico di questa strategia, peraltro accompagnata da complicanze maggiori di sanguinamento, con uno studio precedente che suggeriva una mortalità addirittura più alta con una PCI precoce. Gli autori attribuiscono la mancanza di beneficio negli studi precedenti al rischio maggiore di riocclusione dopo un’angioplastica standard con palloncino. Al momento attuale, invece, l’uso degli stent, di antagonisti della GP IIb/IIIa e di tienopiridine ha ridotto notevolmente l’incidenza di occlusioni dopo una PCI riuscita. Peraltro l’incidenza di sanguinamento si è invece ridotta con l’uso di introduttori più piccoli, la loro rimozione precoce, l’uso più frequente di accesso radiale, la somministrazione di dosi più basse di anticoagulanti e l’eliminazione delle infusioni post-procedurali di eparina. Inoltre l’uso di agenti fibrinolitici altamente specifici per la fibrina, come il tenecteplase, è associato a un’incidenza minore di sanguinamenti non cerebrali, e la frequenza di bypass aorto-coronarico in emergenza dopo una PCI si è ridotta drammaticamente sin da quando gli stent sono entrati nell’uso di routine. Secondo gli autori, tutti questi progressi hanno reso la PCI più sicura quando effettuata dopo fibrinolisi, e i trial effettuati dopo l’uso diffuso di stent hanno mostrato risultati incoraggianti per la PCI effettuata precocemente dopo fibrinolisi.
Gli autori commentano anche che “I risultati sono simili a quelli visti nel recente studio CARESS-in-AMI, in cui una dose dimezzata di reteplase combinata con abciximab è stata utilizzata come terapia di riperfusione iniziale. I risultati di quel trial, assieme a quelli del nostro studio, suggeriscono che, per essere efficaci, tali strategie richiedono probabilmente una terapia antipiastrinica adeguata o con gli inibitori della glicoproteina IIb/IIIa in aggiunta a fibrinolisi a dose ridotta, o di clopidogrel in combinazione con fibrinolisi a dose piena con un uso liberale di antagonisti della GP IIb/IIIa durante la PCI”.
Gli autori inoltre enfatizzano il fatto che studi come il TRANSFER-AMI, in cui la PCI viene effettuata alcune ore dopo la fibrinolisi, sono molto diversi dall’approccio di effettuare una PCI immediatamente dopo la fibrinolisi (PCI facilitata), che per converso è stata associata a un aumento del sanguinamento e nessun beneficio clinico rispetto alla sola PCI primaria. Essi suggeriscono che il tempo tra fibrinolisi e PCI (90-104 minuti) era troppo breve in questi trial con la PCI facilitata, con il risultato che il persistere di un’attività fibrinolitica nel sangue portava a una maggiore incidenza di complicanze di sanguinamento. La mancanza anche di un’adeguata terapia antipiastrinica in quegli studi ha potuto anche conferire, secondo loro, una predisposizione alle complicanze trombotiche.
La finestra ottimale per la PCI dopo trombolisi: 2-24 ore
In un editorial di accompagnamento 6, Freek Verheugt (Onze Lieve Vrouwe Gasthuis, Amsterdam, the Netherlands) commenta “Per le dimensioni del campione e il disegno dello studio, e con la poca evidenza attualmente disponibile che possa suggerire un rischio associato al trasferimento, il trial si può considerare definitivo, nel senso che conferma studi randomizzati precedenti con una simile riduzione del rischio”. Egli aggiunge che le attuali linee-guida sullo STEMI, in Europa e negli Stati Uniti 3, 4 hanno già adottato questa strategia con un livello di evidenza di tipo moderato-alto, cui lo studio TRANSFER-AMI ora contribuisce in maniera sostanziale.
Verheugt nota che i 5 studi recenti disponibili che hanno investigato l’argomento di una PCI precoce dopo fibrinolisi hanno avuto un intervallo tra fibrinolisi e PCI che va da 2 a 17 ore, e che non c’era alcuna differenza in efficacia tra i trial relativamente al tempo tra fibrinolisi e PCI. Ne deriva il consiglio di non effettuare la PCI entro le due ore dalla fibrinolisi, poiché la PCI immediata dopo fibrinolisi è già stata dimostrata inefficace. Verheugt aggiunge che però l’intervallo di 17 ore visto nello studio GRACIA-1 sembra altrettanto buono quanto la PCI a due ore.
C’è, in generale, un ragionevole accordo che aspettare oltre le 24 ore può – per converso – essere svantaggioso, per il rischio di riocclusione dell’arteria correlato all’infarto. Commenta Verheugt: “Sembra pertanto che la finestra ottimale per una PCI precoce dopo fibrinolisi sia compreso nell’intervallo tra 2 e 24 ore”.
Una domanda ancora oggi molto attuale e comunque irrisolta è se tutti i pazienti che abbiano ricevuto una terapia fibrinolitica debbano essere trasferiti per una PCI precoce. “Dato il meccanismo della riocclusione precoce e del reinfarto, e il beneficio coerente osservato negli studi randomizzati di un approccio precocemente invasivo, la risposta dovrebbe essere sì”, aggiunge Verheugt. Egli aggiunge che il trasferimento non dovrebbe essere organizzato in condizioni di emergenza, tranne nei casi in cui la fibrinolisi è fallita (rescue PCI), e si può probabilmente attendere fino al giorno dopo che sia stata data la terapia fibrinolitica. Una tale strategia migliora i risultati della fibrinolisi, al tempo stesso permettendo una transizione di cure che causi meno stress sia per il paziente che per il personale delle ambulanze.
Dunque lo studio TRANSFER-AMI dimostra la fattibilità e i vantaggi di una PCI non immediata (PCI precoce) dopo uno STEMI trattato con trombolisi rispetto alla sola trombolisi, secondo il motto, rimasto famoso, di Verheugt: “Lyse now, stent later” – somministra subito un trombolitico (quando prevedi dei tempi lunghi per una PCI primaria), e poi consolida i risultati con l’impianto di uno stent. Adesso siamo in grado di precisare meglio che cosa sia il “later”, dopo quanto tempo, ottimalmente, impiantare lo stent.
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