Ci sentiamo così tanto (e da così tanto tempo) dentro la «crisi» (la quale è categoria mostruosamente onnivora, che si è divorata tutto il mondo a cui apparteniamo) che forse, in certi momenti, vale la pena di muovere un passo di lato, obliquamente, per provare a vederla da dietro, o di fianco, o da sotto in su, questa insaziabile «crisi». E oggi, se avete voglia, ho trovato un post che lo fa, che fa il passo di sbieco per guardare la crisi da un’angolazione diversa. E dice: «Tutta l’arte sorge dalla crisi, tutta l’arte parla della crisi». E poi cita Steinbeck, e Kafka, e Cechov, e finanche Shakespeare e Zola: tutti autori che della nostra «crisi» non avevano nemmeno sentito parlare…
E meno male che cita anche Thomas Mann, I Buddenbrook, perchè quello è il romanzo che subito mi è venuto in mente, a cui subito ho pensato (ed è pure il mio molto ovvio consiglio di oggi) quando Raffaele Alberto Ventura (l’autore del post) ha scritto che anche i classici possono raccontare la nostra benedetta (o maledetta) «crisi». Come per esempio fa Il giardino dei ciliegi, secondo lui:
Per evitare il default della casata Ranevskaja, sommersa dai debiti, il mercante Lopachin propone un rigoroso programma di riforme: «Ad esempio, per dirne una, abbattere tutte le vecchie costruzioni, questa casa che non serve più a nulla, tagliare il vecchio giardino dei ciliegi…». Il piano consiste nel dividere il giardino in singoli lotti da affittare ai villeggianti estivi. Per uscire dalla crisi, insomma, bisogna equilibrare i bilanci mettendo a profitto le risorse improduttive, poco a poco distruggere tutta la bellezza del mondo.
E se vi sono piaciute queste ultime due righe, vi consiglio di leggerlo tutto: è qui, e merita un po’ di attenzione.