prima di una fine
12 Giugno 2016luogo di lavoro
17 Giugno 2016Mi scuserete, ma sono nuovamente costretto (davvero, non uso a caso questo verbo, davvero) a indulgere a quel po’ di autobiografia che pure, forse, non dovrebbe trovare luogo in questo spazio. Ma oggi è il 14 giugno, data che rimanda a un altro 14 giugno, di trenta anni fa, in cui morì uno dei primi scrittori a cui avevo avuto, ragazzo adolescente, il coraggio di avvicinarmi. Trent’anni fa esatti morì Jorge Luis Borges.
Io mi stavo preparando per il mio esame di maturità, pochi giorni dopo avrei scritto un tema sui poeti del Novecento, poi avrei fatto il mio esame orale, poi avrei scelto la letteratura per sempre e ed era un viaggio che cominciava e di cui non potevo rendermi conto, in nessun modo, ma oggi sono qui che scrivo, sono passati trent’anni, la strada ha forse una sua coerenza (mi piace crederlo, ogni tanto), il tempo ha lasciato qualche strana traccia, le parole continuano a stridere, i cieli ad aprirsi all’improvviso.
Per cui (lo so che mi vorrete silenziosamente scusare, lo so) mi limito a ricordare Borges, oggi che sono trent’anni dal giorno della sua morte; e lo faccio citando non i racconti (che ho poi sempre continuato a rileggere, negli anni), ma addirittura le sue poesie, che invece ho un po’ abbandonato, non so perché, e che solo oggi mi sono tornate alla mente. E le ricordo anche se so che la traduzione delle poesie è sempre un tradimento e che non si dovrebbero leggere versi se non nella lingua che li ha pensati e scritti. Mi scuserete anche di questo, insomma.
E quindi una poesia molto famosa, per cominciare. Si intitola I giusti, e faremo sempre bene a non dimenticarla:
I giusti
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
Poi un testo su Paolo e Francesca, così letterario che trent’anni fa non avrei potuto in nessun modo capirlo (e non lo capii infatti); e che invece ora mi assomiglia quasi più di ogni altro:
Inferno V, 129
Lasciano cadere il libro, ormai già sanno
che sono i personaggi del libro.
(Lo saranno di un altro, l’eccelso,
ma ciò ad essi non importa).
Adesso sono Paolo e Francesca
non due amici che dividono
il sapore di una favola.
Si guardano con incredulo stupore.
Le mani non si toccano.
Hanno scoperto l’unico tesoro:
hanno incontrato l’altro.
Non tradiscono Malatesta
perché il tradimento richiede un terzo
ed esistono solo loro due al mondo.
Sono Paolo e Francesca
ma anche la regina e il suo amante
e tutti gli amanti esistiti
dal tempo di Adamo e la sua Eva
nel prato del Paradiso.
Un libro, un sogno li avverte
che sono forme di un sogno già sognato
nelle terre di Bretagna.
Altro libro farà che gli uomini,
sogni essi pure, li sognino.
Poi ancora una poesia d’amore, perché la poesia è di questo che incessantemente parla (ché d’altro non vale la pena):
L’innamorato
Luna, avorio, strumenti musicali, rose,
lampade e il segno di Durer,
le nove cifre e lo sfuggente zero,
devo fingere che queste cose esistano.
Devo fingere che nel passato c’erano
Persepoli e Roma e che una sabbia
sottile ha misurato il destino di una torre
che le età del ferro hanno disfatto.
Devo pensare alle armi e alle fiamme
delle epopee e ai mari plumbei
che rosicchiano i pilastri della terra.
Devo fingere che ci sono gli altri. E’ falso.
Ci sei solo tu. Tu, mia ventura
e sventura, inesauribile e pura.
E infine una breve poesia sul tempo, che passa come sono passati questi trent’anni, dopo che anche Borges è morto:
Il tempo
Il tempo è un fiume che mi trascina,
ma sono io quel fiume;
è un tigre che mi divora,
ma sono io quella tigre;
è un fuoco che mi consuma,
ma sono io quel fuoco.
Il mondo, disgraziatamente, è reale;
io, disgraziatamente, sono Borges.
Però, se avete avuto il coraggio di arrivare fin qui, vuol dire che mi avete già scusato. E allora, ecco, qual era il vero momento autobiografico, ve lo devo raccontare. Ebbi un’insegnante di italiano, una volta. Si chiamava Maria e ne ho già parlato qui. Non dava molta confidenza, non parlava la «lingua di noi giovani», come si direbbe oggi. Faceva un mestiere, lo faceva bene. E mi sono soltanto oggi, non so perché, ricordato che pochi giorni dopo la fine di quell’esame di maturità mi scrisse una lettera in cui trascriveva una lunga poesia di Borges (sapeva che avevo imparato ad amarlo) e poi poche righe di suo pugno che dicevano, più o meno, che voleva che quei versi fossero «un viatico» per il mio «viaggio che stava per cominciare». È strano, ma non ho mai più letto quella poesia e non so nemmeno più ritrovarla, per quanto cerchi e per quanto anche oggi l’abbia cercata tra i miei libri. Chissà dov’è finita, chissà insomma da dove in realtà eravamo, una volta, partiti.
4 Comments
LA CERVA BIANCA
Da quale agreste ballata della verde Inghilterra, da quale stampa persiana, da quale regione arcana delle notti e dei giorni che il nostro ieri racchiude, è venuta la cerva bianca che ho sognato questa mattina? Sarà durata un secondo. L’ho vista attraversare il prato e perdersi nell’oro di una sera illusoria, lieve creatura fatta di un po’ di memoria e di un po’ di oblio, cerva di un solo fianco. I numi che reggono questo strano mondo mi hanno permesso di sognarti ma non di essere il tuo padrone; forse ad una svolta dell’avvenire profondo ti incontrerò di nuovo, cerva bianca di un sogno. Anch’io sono un sogno fuggitivo che dura qualche giorno di più del sogno del prato e del biancore.
(Jorge Luis Borges)
Meravigliosa. Selezionare qualcosa, all’interno dell’opera di Borges, é operazione di grande gioia e di grande dolore , perché a ogni mancata selezione corrisponde, in qualche modo, un’ingiustizia. A lenire il dolore c’é, tuttavia, la consapevolezza che, da qualche parte, in qualche momento, un altro selezionatore…..
P.S. Oltre ai “racconti” , capolavori indiscussi, Io adoro ” I prologhi”. .
I Prologhi sono senz’altro uno dei capolavori borgesiani. E grazie soprattutto del suo contributo al mio piccolo ricordo antologico.
Che bello rileggerti! (ho avuto un anno molto convulso e con poco tempo per i piaceri della vita).
Ma guarda un po’ che ti ritrovo qui… (ciao)