le nostre bocche aperte
21 Febbraio 2019nei nostri umani panni
28 Febbraio 2019Tornare è il verbo. Non è l’unico, in realtà, ce ne sono anche altri: potrebbe andare bene per esempio «cedere», lo avevo già scritto, chissà dove; o anche «resistere», per ovvie ragioni, così come il più semplice «partire» e il meno agevole «incontrare»… Ma oggi il verbo è «tornare», l’atto è quello del ritorno. Che è Ulisse, fin dalla notte dei tempi, ovviamente, ma anche noi, nel breve tratto di tempo che ci viene concesso; è anche l’eterno tornare dei nostri passi, dei nostri errori; il consueto e ossessivo ripetersi della stessa domanda cui non potremo mai dare una vera risposta.
Sono i libri che tornano, in effetti. Li mettiamo via, li sistemiamo con cura sui ripiani, come in una tomba, pensiamo che abbiano concluso la loro strada, detto le loro parole una volta per sempre, non ci pensiamo più. Ma i libri sono zombie. È la letteratura che torna. Ed eccoli dunque di nuovo sulla nostra strada, come un inciampo, come una risposta che non abbiamo dato a una domanda che siamo stanchi di pronunciare; e ci sono libri che tornano sempre, infatti.
I sommersi e i salvati di Primo Levi, per dire. Uno dei libri che non stanno su nessuno dei miei scaffali, che sfuggono, che si intromettono continuamente. E oggi, grazie a una lettera di cui ci parla Ernesto Ferrero, oggi più di altri giorni. Con queste parole, per esempio:
«Non si fanno progetti al di là di una settimana», leggiamo ancora nella lettera. Sembra che Primo stia parlando di noi, oggi, della nostra mortificante incapacità a guardare lontano e imparare dalla storia. Eppure lo ha scritto chiaro… : «è avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire».
Ma ritorna anche Pepe Carvalho, inatteso, tanti anni dopo la morte dell’uomo che lo aveva inventato, dopo tutti gli anni che i suoi libri erano immobili sopra i miei scaffali. Ed ha vita propria, il detective gallego, come tutti personaggi che siano sopravvissuti al loro autore, come un don Chisciotte che percorra una Mancha turistica e urbana, la Barcellona che Montalbán non ha fatto in tempo a vedere, anche se l’aveva fin troppo bene immaginata. Eccolo, il nuovo Pepe Carvalho:
Carvalho osserva, senza prendere posizione. E’ spettatore: parla con la gente, si pone domande. Dopotutto resta un personaggio apolide, anche nei romanzi di Montalbán lo era. Si occupa della sua tribù, non ha una bandiera di riferimento. Né può schierarsi sotto una bandiera o un concetto di patria. E’ semplicemente un solitario…
E poi, ritorno circolare, sempre atteso nella consapevolezza che non tornerà più, c’è la letteratura insostituibile di Daniele Del Giudice, che troppe volte è ricomparsa su queste mie inutili pagine. Oggi è Atlante occidentale che ritorna, in una nuova versione che non è mai stata così bella da rileggere, da ri-rileggere, se come me non siete mai stanchi di tornare sulle stesse parole. Ne trovate scritto qui; vi si dice per esempio così:
Atlante occidentale fu rivoluzionario, quando uscì. Perché raccoglieva la grande tradizione europea, la retorica classica, Narciso e Boccadoro, i dialoghi di Leopardi e la severa profondità di Thomas Mann … Perché, sotto la glaciale perfezione della scrittura, della meditazione, fuma sempre l’emozione, lo stupore. E fumano, senza riposo, senza risposta, le domande più radicali. Qual è la vera conoscenza umana, la ragione o il sentimento? Che senso hanno, tutte le nostre fatiche? E dove portano, le ricerche, gli scopi cui decidiamo di sacrificare le nostre vite, che insieme ci fortificano e ci castigano? Domande eterne, ancor più complicate in un tempo in cui, leggendo un libro che parla dell’eccellenza europea, occidentale, è da chiedersi se esistano ancora, l’Europa, l’Occidente.
Tornare è il verbo, pertanto. Attendere i possibili ritorni è l’atto, la speranza, l’illusione. E i versi che tornano alla memoria, oggi, sono questi, di Franco Fortini (un altro che non smette proprio mai di ritornare):
Ogni cosa, puoi dirlo, è assai più buia
di quanto avevi immaginato, in questa
casa dove ti han detto di aspettare
che tornino gli amici tumultuosi.
Vai da una stanza all’altra e dunque aspetti.
I muri sono stanchi, oscuri gli angoli.
Torneranno gli amici appassionati.
Non è dolore, non è ira o noia
ma un rancore nel fondo della testa
che ora sembra noia ora dolore.
Fuori dei vetri vedi ancora i tetti.
Dentro, dove tu sei, non vedi più.
Se non, contro il soffitto, dai cortili
qualche filo di lume o dalla bruma
il chiaro della città verso cena.
Puoi, quando vuoi, accendere la luce,
leggere un libro, fumare, pensare
ad altro, intanto che il tuo tempo passa.