Non è mai troppo tardi per anticoagulare…
17 Aprile 2018con il casco in testa
22 Aprile 2018Ho un amico psicoanalista e ho vissuto per qualche settimana a casa sua, diversi anni fa. E in quelle settimane di più di una decina di anni fa ho incontrato la psicanalisi, quella che avevo letto e (un po’) studiato sui libri; ma l’ho incontrata sul campo, nel quotidiano, dietro i muri del suo salotto, giorno per giorno, ora dopo ora. Ascoltavo i racconti serali del mio amico, gli vedevo negli occhi la fatica del suo ascolto, il suo costante desiderio e bisogno di fuggire dalle nevrosi dei suoi pazienti, leggevo le sue relazioni prima che ancora che le presentasse ai convegni a cui era invitato, mi facevo descrivere sintomi e patologie… E ho sempre pensato che la psicoanalisi non fosse altro che un genere della narrazione, una declinazione contemporanea del dramma classico, un tentativo di raccontare l’essere umano in un modo nuovo e non ancora del tutto decifrato; oppure, per essere più letterario ancora di così, l’ennesima prova di descrizione della selva oscura in cui periodicamente ci smarriamo, pieni di sonno.
Per questo, quando ho letto oggi questo raffinato dialogo su un treno, ho ricordato quei giorni passati (per mia disavventura) a casa di quell’amico e ho sorriso e ho pensato che altre cose vorrei ascoltare e leggere sul rapporto tra arte e psicoanalisi, o anche solo tra racconto della letteratura e racconti della nevrosi. E vi lascio dunque con quel dialogo e in particolare con questa battuta, che mi pare perfetta a descrivere ciò che succede quando si comincia a scrivere. Ma forse anche quando si comincia a leggere; o forse, addirittura, anche quando si comincia a vivere (perché siamo tutti quell’uomo su quel gommone, temo; e sicuramente lo ero io, molti anni fa, in quelle settimane in cui mi capitò di abitare in casa di un amico psicoanalista):
Pensi a un uomo su un gommone: è un esempio che mi ha fatto una volta un mio paziente. Vuole andare da una piccola isola a un’altra, e a un certo punto si trova in mezzo al mare, e non vede più né da dov’era partito né dove vuole arrivare. Per essere creativi, anche in un setting terapeutico, dobbiamo salire sul gommone. Cioè, dobbiamo espropriarci di quello che crediamo di essere, senza sapere ancora che cosa potremmo essere: solo allora passiamo dalla ripetizione all’invenzione. In altre parole: dobbiamo distaccarci e affrontare qualcosa che è un buco nel sapere. Un modo di essere in cui si guarda a viso aperto ciò che ancora non si sa, e si ama ciò che non si sa.
[E poi, ma non chiedetemi il perché, mi è venuta in mente questa poesia, mentre finivo di scrivere le poche parole di cui sopra: sarà per il «corrimano», sarà per la «risposta incerta», continuo a non saperlo, sarà forse il sintomo di qualcosa che ho e di cui soffro e che ancora, nonostante tutti questi anni passati ad ascoltarmi, non ho capito cosa sia, non ho ancora capito come raccontarlo. Però, nell’incertezza, vi lascio la poesia (di Wisława Szymborska) come mite augurio per la giornata:
Ad alcuni piace la poesia
Ad alcuni –
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dove è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.
Piace –
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.
La poesia –
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano. ]