Continua a essere necessario, per chiunque ma a maggior ragione per chi come me lavora in mezzo a persone nate per lo più dopo il 2000 e completamente assorbite da strumenti tecnologici di cui io ho potuto fare a meno fino a 40 anni, continua a essere necessario riflettere su questi strumenti, sul modo in cui essi possono cambiare il rapporto tra gli esseri umani e la realtà che essi percepiscono, tra gli esseri umani tra di loro, e anche tra ogni essere umano con se stesso.
Per questo non mi pare inutile segnalare questa riflessione che ho trovato stamattina su un quotidiano online, che parla di una delle poche ricerche affidabili che siano state fatte su questi temi negli anni recenti. L’articolo, che a tratti (soprattutto nel finale) mi è parso fin troppo gioiosamente ottimista e antinostalgico, a un certo punto scrive cose così (davanti alle quali il mio eventuale ottimismo perde un po’ della sua baldanza, per esempio):
… da quando gli smartphone sono diventati onnipresenti, all’inizio di questo decennio, l’interazione faccia a faccia tra i giovani è drasticamente diminuita. Non solo, ma gli adolescenti e gli studenti universitari statunitensi oggi fanno tutto “meno”: lavorano meno, escono meno di casa, si mettono meno nei guai, bevono meno e consumano meno droghe, sono meno interessati a prendere la patente per l’auto, meno interessati all’indipendenza, hanno meno pregiudizi razziali o di genere, sono meno bullizzati o bullizzano meno, si accoppiamo di meno e fanno meno sesso (quindi meno malattie sessuali), sono meno disposti ad ascoltare chi dice cosa controverse o che giudicano psicologicamente fastidiose, etc.
Ci sono cose belle e cose brutte, insomma. Ma soprattutto, lo avete notato, ci sono meno cose. L’unica realtà che è invece senz’altro aumentata è quella delle informazioni a disposizione di chiunque, il che ha reso negli anni il mio mestiere molto diverso da quello che era quando ho iniziato a farlo (1994). E questa differenza è ben raccontata da questo episodio tipico, raccontato in un altro post, a cui segue una lunga e per nulla superflua riflessione su come orientarsi nel labirinto del web:
Ore 9.00, classe prima liceo (scientifico, linguistico, scienze umane, classico, artistico… non fa differenza), lezione di geografia astronomica, argomento: il satellite naturale della Terra. Immancabile lo studente che dall’ultima fila alza la mano: “Prof, scusi, ho letto su internet che non è vero che gli americani sono andati sulla Luna, hanno girato tutto in studio”. La risposta argomentata e documentata dell’insegnante non si fa attendere, ma lo scetticismo rimane, i volti di molti tradiscono un dubbio più che lecito: “Come faccio a sapere che è vero quello che dice lei e non quello che ho letto su internet?” Appellarsi all’ipse dixit sarebbe scorretto e diseducativo e poi, con quale autorevolezza? Bisogna ricorrere a fonti attendibili e fondate, ma come si fa?
Ma forse preferivate una poesia, non lo so (o almeno io, per me, lo so: io preferisco sempre una poesia). Nel qual caso mi pare di avere alcuni splendidi versi che farebbero al caso vostro; e che non giungono nemmeno tanto a sproposito, visto che il tema del rapporto che ogni essere umano può avere con se stesso è al centro della loro rapido e folgorante accendersi sulla pagina (o sullo schermo). Li ha scritti Carlo Betocchi, e li ha riportati oggi il mio sito preferito tra quelli che parlano in rete di monachesimo. Sono questi:
La tua mente illusoria rifiutala
se non ha altri argomenti che te:
e il tuo cuore, se non ha che i tuoi
lamenti. Non avvilirti
compassionandoti. Sii non schiavo di te,
ma il cuore di ciascun altro: annullati
per tornar vivo dove non sei
più te, ma l’altro che di te si nutra,
distinguilo dal numeroso,
chiama ciascuno col suo nome.