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Stent a rilascio di farmaco: la panacea della cardiologia interventistica?

Stent a rilascio di farmaco: la panacea della cardiologia interventistica?
Paolo Golino

 

L’introduzione in commercio degli stent a rilascio di farmaco (Drug-Eluting Stent, DES) ha profondamente influenzato il mondo della cardiologia interventistica. Infatti, la riduzione dell’incidenza della restenosi dal 20-30% che si osserva con l’impiego degli stenti metallici “nudi” (Bare Metal Stent, BMS) ad un numero ad una sola cifra che si osserva con i DES, ha avuto come inevitabile consequenza lo “spostamento” delle procedure interventistiche coronariche (PCI) verso lesioni sempre più complesse in pazienti sempre più delicati (per una review recente vedi referenza n° 1). Questi entusiasmanti risultati hanno portato a ciò che è stata definita “DES euphoria”, per cui numerosi cardiologi interventisti hanno proposto l’uso allargato dei DES nel 100% delle PCI (e d’altra parte, la loro penetrazione sul mercato è in continuo aumento, compreso il nostro Paese).

Tuttavia, come spesso accade in medicina, dopo gli entusiasmi iniziali si comincia a percepire la presenza di alcune problematiche e i DES non fanno eccezione a questa regola. Infatti, è comune convincimento che i DES abbiano un potenziale trombogenico intrinseco maggiore rispetto ai BMS, anche se i dati della letteratura sembrerebbero non confermare questa sensazione. In realtà, una metaanalisi degli 11 trial clinici attualmente disponibili (5013 pazienti) sull’uso dei DES non ha mostrato differenze significative in termini di aumento dell’incidenza della trombosi tardiva con i DES rispetto ai BMS (2), anche se non mancano comunicazioni, ormai numerose, che descrivono casi di trombosi tardiva dopo impianto di DES, suggerendo che la situazione del “mondo reale” possa essere sostanzialmente diversa da quella descritta dai trials clinici (3, 4).
Recentemente è apparso un lavoro del gruppo di Renu Virmani che per la prima volta esamina in maniera sistematica gli effetti dei due DES (Cypher e Taxus) approvati dalla Food and Drug Administration americana in 40 casi consecutivi di pazienti nei quali erano stati impiantati uno o più DES e successivamente deceduti (5). Ventitre di questi 40 pazienti avevano subito l’impianto da più di 30 giorni e di questi, ben 14 (60%) avevano evidenza di trombosi tardiva all’interno dello stent. Nel gruppo di controllo, costituito da pazienti simili in cui erano stati impiantati però BMS, l’incidenza della trombosi intrastent era meno dell’8%. I DES, inoltre, si associavano ad un maggior ritardo della cicatrizzazione, una minore endotelizzazione e una maggiore deposizione di fibrina e cellule infiammatorie sulle maglie dello stent. I fattori di rischio associati alla trombosi tardiva dei DES erano la lunghezza eccessiva dello stent impiantato, l’impianto in lesioni ostiali o alla biforcazione, errori procedurali di impianto dello stent con malapposizione dello stesso alla parete del vaso, la penetrazione di una o più maglie all’interno di un core necrotico della placca ma soprattutto l’interruzione precoce della doppia terapia antiaggregante (ASA + Clopidogrel). Da sottolineare che l’incidenza di trombosi tardiva rappresenta un evento catastrofico: nella serie descritta da Virmani e collaboratori, la trombosi tardiva causava morte in 13 dei 14 pazienti, a sottolineare l’estrema gravità del fenomeno.
Va detto che lo studio di Virmani et al possiede alcune importanti limitazioni intrinseche, la prima delle quali è rappresentata dal fatto che lo studio è di tipo autoptico e quindi i risultati descritti potrebbero non essere applicabili ai pazienti che impiantano un DES e che sopravvivono. Inoltre, un cospicuo numero di pazienti in questa serie aveva ricevuto un DES per indicazioni non approvate dall’FDA, come ad esempio l’infarto miocardico acuto. Tuttavia, pur con queste importanti limitazioni, lo studio richiama l’attenzione su ciò che Serruys e colleghi con grande onestà intellettuale hanno definito un fenomeno non correttamente riportato e potenzialmente catastrofico (4).
Il lavoro di Virmani et al pone, insieme agli altri già presenti in letteratura, anche l’importante questione di quanto a lungo si deve mantenere la doppia terapia antiaggregante, essendo ormai chiaro che l’interruzione precoce della doppia antiaggregazione rappresenta il fattore di rischio più importante per l’incidenza di trombosi tardiva, con un rischio relativo fino a 89 volte, come descritto in un recente lavoro del gruppo di Antonio Colombo (6). In attesa di dati più solidi, l’attuale tendenza è di estendere la doppia terapia antiaggregante a 12 mesi dopo l’impianto e di prolungarla oltre nel caso di un potenziale trombotico elevato (DES molto lunghi, biforcazioni, vasi piccoli). Obbligatorio inoltre è il consiglio di aderire strettamente alle indicazioni per quanto riguarda l’impianto dei DES.

BIBLIOGRAFIA
1.Serruys PW, Kutryk MJB, Ong ATL. Coronary artery stents. N Engl J Med 2006; 354:483-495.
2.Babapulle MN, Joseph L, Belisle P, Brophy JM, Eisenberg MJ. A hierarchical Bayesian meta-analysis of randomised clinical trials of drug-eluting stents. Lancet 2004; 364:583–91.
3.Iakovou I, Schmidt T, Bonizzoni E, et al. Incidence, predictors, and outcome of thrombosis after successful implantation of drug-eluting stents. JAMA 2005;293:2126 –30.
4.McFadden EP, Stabile E, Regar E, et al. Late thrombosis in drug-eluting coronary stents after discontinuation of antiplatelet therapy. Lancet 2004;364:1519 –21.
5.Joner M, Finn AV, Frab A, Mont EK, Kolodgie FD, Ladich E, Kutys R, Skorjia K, Gold HK, Virmani R. Pathology of drug-eluting stents in humans. Delayed healing and thrombotic risk. J Am Coll Cardiol 2006; 48:193-202.
6.Iakovu I, Colombo A. Incidence, predictors and outcome of thrombosis after successful implantation of drug-eluting stents. JAMA 2005; 293:2126-2131.

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