Procedura “valve-in-valve” per la correzione transcatetere delle bioprotesi aortiche degenerate
10 Luglio 2017spogliarsi delle vesti
14 Luglio 2017… attraversiamo la vita reagendo alle situazioni che ci sono familiari attenendoci sempre allo stesso copione: diciamo “bene” quando ci chiedono come stiamo; mandiamo “cordiali saluti” a sconosciuti nelle email, e borbottiamo “no, mi dispiace” quando qualcuno ci chiede dei soldi. Ma se spezziamo la routine dando agli altri qualcosa di leggermente più interessante su cui riflettere, la loro reazione diventa imprevedibile.
Io non so se sia davvero così. E non so nemmeno se ho così tanta voglia di spezzare la routine e di vivere costantemente nell’imprevedibilità: forse no, forse la prevedibilità è comoda, forse ci ripetiamo che amiamo l’imprevedibile e odiamo la routine perché è prevedibile dirlo e ripeterselo. È routine, insomma, anche quella: lo diciamo perché lo dicono tutti, ci conforta, ci mettiamo in coda, non ci pensiamo più, attraversiamo le giornate come sonnambuli e così sia.
E forse facciamo così anche con i libri. Anzi, c’è chi ha scritto oggi che facciamo così proprio con i libri: che li leggiamo perché sono di moda, perché ricorrono nelle conversazioni, perché gli altri li leggono, perché vincono i premi, perché è brutto fare la figura di quelli che non li hanno letti… E alla fine «decidere» di leggerli è più comodo e meno faticoso che trovare un buon motivo per non leggerli. Perché costruirsi una biblioteca personale significa prima di tutto scartare i libri non sceglierli. Significa cioè non leggere:
le liste e le biblioteche non valgono per ciò che raccolgono ma per ciò che scartano, non per ciò che vi è depositato ma per ciò che vi manca. Le biblioteche, soprattutto quelle personali, sono cartografie d’assenze, le liste sono cataloghi di mancanze. Se monumenti devono essere, al massimo sono monumenti funebri, cioè segnaposto di una perdita.
Perciò, se vi va di indulgere per qualche settimana a un’autentica lettura facoltativa, avrei un nome per voi, quello di uno scrittore. Si chiama Giorgio Scerbanenco e ce ne ricordiamo assai di rado. Scrisse gialli molto belli, quando scrivere gialli non era affatto di moda e leggerli quindi non era per niente obbligatorio (si usava parlare di altro, nelle conversazioni). E come accade ai migliori giallisti di sempre, scrivendo gialli raccontò una città, che era Milano la sua città di adozione:
Una Milano piena di nebbia, che il boom economico degli anni ‘60 sembra aver reso più violenta, con le periferie popolate da meridionali venuti a cercar fortuna, bande di criminali disposti a tutto scatenate nelle strade, una borghesia ricca e “perbene” che spesso dietro le quinte tira le fila dei vari traffici criminali, e una polizia dura quanto quelli a cui dà la caccia e non di rado disposta a spingersi oltre i limiti della legge. Atmosfere che hanno ispirato registi come Fernando Di Leo, Yves Boisset, e Lamberto Bava, che hanno tratto adattamento televisivi e cinematografici dai libri e dai racconti di Scerbanenco, ma verso cui ha riconosciuto un debito anche Quentin Tarantino.
Trovate qui una bella presentazione dei suoi lavori più rappresentativi. Ma se volete un ulteriore parere personale, potete cominciare da Venere privata, che è un buon inizio e un bellissimo romanzo. E sarà un bel modo per spezzare la routine delle letture con un libro un po’ meno prevedibile.