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sineddochi

Ha scritto un mio caro amico che questo articolo di Claudio Giunta (lo trovate qui, è in effetti il mio primo consiglio di oggi) «si rivela una perfetta sineddoche». Credo sia vero, credo che ogni tanto la letteratura e i letterati (e Giunta lo è sempre, anche quando finge con se stesso di non esserlo) riescono spesso a rivelarsi allegorie di un intero i cui contorni rischiano di sfuggirci. Venafro, paese molisano, è quindi una sineddoche; ma ancora meglio le parole con cui Claudio Giunta racconta Venafro sono una sineddoche. Per esempio, molto efficacemente, qui:

Non è per vedere questa Venafro che avete sfidato l’entropia della stazione delle corriere di Roma Tiburtina e due ore di viaggio in torpedone, ma dal momento che ci siete date un’occhiata anche a questo pezzo d’Italia meridionale tipico, ascoltate senza volere, ma facendo attenzione, i discorsi davanti ai locali, il concionatore che arringa il gruppetto di amici raccontando della trasmissione della sera prima (“Ho visto un video che non ci ho capito un cazzo ma è sicuro che hanno cambiato il clima. Le trombe d’aria. Gianni Vespa ha intervistato uno scienziato del cnr”), la signora anziana al tavolo accanto che racconta a un tale di aver sognato suo fratello morto, “quello che stava a Rocchetta”. E che diceva? “E niente diceva, ’sto cristiano. Mi guardava”.

O anche, altrettanto puntualmente, qui:

Venafro vecchia si è svuotata dopo il terremoto del 1984. “Un mezzo terremoto, in realtà”, mi dicono, “insufficiente a distruggere ma sufficiente a spaventare”. La gente è andata a vivere nel primo o nel secondo strato, dove ci sono i negozi, si può parcheggiare l’automobile, le salite sono meno ripide. Ma il primo e il secondo strato sono brutti, ordinari nei casi migliori, mentre il terzo strato, quello della città vecchia, oggi semivuoto, cadente, è magnifico.

Ma non c’è solo un paese molisano che può essere sineddoche, paradigma, tessera esemplare del mosaico che abitiamo in questi anni. Ho già detto di Venezia e della sua laguna e della sua acqua alta, qualche giorno fa. Ma ho poi letto, stamattina, una specie di apocalittica lamentazione scritta da Sandro Frizziero e l’ho trovata bruciante, estrema, acuta, disperata. Ve la consiglio, la trovate qui se avete tempo, se avete visto o avete pensato a Venezia almeno una volta in questi ultimi mesi. Se l’avete pensata come spesso la penso io, e cioè come allegoria di qualcosa di fondamentale, di metafisico, di assoluto, qualcosa che non ho mai capito cosa sia:

Adesso Venessia è invasa e nessuno se ne accorge. Escono a fiotti dalle grandi navi, i barbari, quelli nuovi, o dagli ostelli di Mestre, fioriti in quantità per offrire Venessia a pochi schei. Arrivano a Tronchetto o a Piazzale Roma, poi line two fino a Rialto bridge, per spargersi, intasare, soffocare, ostruire ogni calle, anche la più stretta, occupare ogni pertugio, proprio come ha fatto l’acqua granda. È un attimo che alla città intera venga un infarto. La laguna, erosa e scavata, è un polmone che non riesce più a respirare; si ribella, la laguna, ai tour organizzati e ai selfie-stick. Ride in faccia a chi vorrebbe tamponare il mare, perché sa, sa benissimo che le dighe bisognerebbe costruirle verso la Terraferma; mura spesse, per difendere quel che resta da difendere. Perché sono loro il problema: i barbari. Sono sempre stati loro.

Ma se è di allegorie o sineddochi letterarie che vogliamo parlare, c’è uno scrittore che è secondo me tra i più bravi che stiano scrivendo in questi anni. L’ho citato molte volte, forse dovrei smettere. È che oggi ho trovato un altro bellissimo articolo che parla di lui e dei suoi romanzi (che non sono romanzi) (lo trovate qui) e ho pensato che era un articolo molto bello, efficace, ben scritto, disperato come è lo scrittore di cui parliamo (David Szalay) ma anche leggero, coraggioso, capace di puntare lo sguardo oltre, verso ciò che di umano rimane nell’uomo, e mi dispiaceva troppo non citarlo, dimenticarlo, lasciarlo da parte. E non approfittarne per dire un’altra volta che i racconti di Szalay sono tra le migliori cose che io abbia letto negli ultimi dieci anni, sul serio. E l’articolo (scritto da Davide Coppo) a un certo punto dice così:

Le scene che Szalay scrive sono come set teatrali, circoscritte a pochi giorni, pochi personaggi e panorami non troppo ampi, e la loro funzione è quella di essere dei diorama di tristezze e dolori quotidiani e ordinari. I drammetti al cui centro ci sono loro non sono incredibili, non sono straordinari.

Sono delle sineddochi, infatti. Forse, mi pare, ne abbiamo ancora bisogno.

Davide Profumo
Davide Profumo
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