«Non so perché ho scritto così, prof. È che c’ho avuto il sentimento.»
Mi risponde così la mia alunna di prima, quattordicenne, quando le chiedo spiegazione di una frase particolare che ha scritto in un suo testo, a proposito di un libro che stiamo leggendo. Mi risponde che c’ha avuto il sentimento.
E io rimango un po’ stupito, un po’ divertito e comincio a chiedere, a lei e a tutti gli altri, che cosa sia questo sentimento, che cosa significhi «averci il sentimento» e loro, giovani studenti di una cittadina siciliana ben lontana dai più comuni itinerari turistici, mi spiegano. O almeno ci provano. E io capisco. O almeno ci provo, faccio il possibile, non so se davvero capisco.
Ma mentre loro parlano e le loro voci si accavallano e si sovrappongono (c’è un’energia in questi giovani siciliani che davvero io non avevo mai conosciuto in tanti anni di insegnamento; è un’energia a cui non so nemmeno dare un nome, è un’esplosività naturale, un desiderio di essere e di parlare e di raccontarsi che li rende, ai miei occhi di insegnante ancora un po’ sorpreso della sua personale migrazione al contrario, da Nord a Sud, li rende bellissimi), ecco io penso che magari non ho capito niente, sarà così, ma il sentimento è forse proprio quella cosa che io cerco da sempre, quella che rende poesia la poesia.
È il quid, il segreto, la brace, la scintilla. È il cuore, la pulsazione, il sangue, il battito della letteratura.
E mi viene allora in mente un post che ho letto due o tre giorni fa e che ho fatto leggere ad alcuni amici e tutti mi hanno fatto notare cose diverse tra loro, e diverse da quelle che avevo notato io, e mi gira in testa senza che io capisca bene il perché; è un post di Matteo Nucci, che parla del nostro tempo pandemico e lo fa in modo volontariamente impreciso, evocando invece di analizzare, eppure è così millimetricamente esatto nel parlare di me, del mio tempo, del mio battito di cuore nel cuore dell’epidemia.
Un post che per esempio dice così:
Perdere tempo è un’arte nobile. L’abbiamo imparata, noi che viviamo sul Mediterraneo, forse proprio dal nostro mare, dalla luce che lo illumina, dalle giornate che si allungano e si accorciano e che chiedono a tutti gli esseri umani un impegno più o meno lungo per procurarsi di che vivere. Il tempo del lavoro, il tempo di quell’impegno materiale, eccolo il tempo da perdere. Lo sappiamo con chiarezza fin da quando la genialità della lingua greca volle definire quel tempo di lavoro e di impegno materiale come una sottrazione. Ascholìa. Alfa privativo, ossia negazione di ciò che segue, dunque negazione del tempo libero: la scholè. Lavorare è necessario per vivere, ma vivere non significa occupare il tempo di lavoro. Vivere significa perderlo, quel tempo di lavoro, liberarsene e dedicarsi a se stessi.
E poi, poco più avanti, così:
Stiamo perdendo tempo da un anno a questa parte? No. Stiamo perdendo il tempo. Stiamo perdendo il tempo libero dal lavoro, il tempo per ricreare noi stessi. A volte si ha l’impressione che un grande vecchio esista davvero e abbia concepito tutto questo in maniera così sistematica e logica da apparire impeccabile. Siamo rinchiusi in casa, abbiamo strumenti per lavorare da lontano e lavoriamo. Se è necessario uscire per lavorare possiamo farlo. Ma qualsiasi spazio diverso ci è stato sottratto. E senza lo spazio dove è possibile perdere tempo, siamo costretti soltanto a perdere il tempo, il tempo sacro, quello libero che nella primavera esplode di dolcezza e nell’estate s’illanguidisce eppoi nell’inverno si contrae per tenderci di nuovo come elastici verso il tempo che si srotola nel ciclo e che nel ciclo lascia trionfare l’essere umano.
E poi prosegue ancora (trovate tutto qui, è il mio consiglio di oggi, lo considero bellissimo, non siate avari del vostro tempo e dateci un’occhiata) e arriva a parlare di Ulisse e di Achille, di Atene e di Siviglia, e di Max Weber e di protestantesimo… E mette insieme le cose secondo una logica meno logica di tanti altri, meno razionale, magari per voi irragionevole, e però così terribilmente vera in alcuni passaggi, che ho pensato che non ce l’avrei fatta ad arrivare alla fine.
Ce l’ho fatta, in realtà. E mentre i miei alunni di prima, così mediterranei (soprattutto le alunne, a dire il vero: nelle classi siciliane le ragazze travolgono tutto con la loro voce, i maschi tacciono preoccupati), provavano a spiegarmi a voce alta una loro parola con altre loro parole che negli anni ho imparato a capire, ecco, io ho pensato a Matteo Nucci e ho pensato che lui in questo articolo (ma anche nei suoi libri) «c’ha il sentimento». La letteratura, insomma. Quella che, da quando ero un ragazzo dell’età che hanno adesso i miei alunni di prima, sa spiegarmi l’inspiegabile del mondo e di me stesso. La scintilla che sta dentro le parole e le illumina di una luce irragionevole. Il battito del cuore che con gli strumenti di voi cardiologi non è ancora possibile (per fortuna) registrare o misurare o prevedere…
Ma in realtà Matteo Nucci, se passasse per caso di qui, avrebbe un nome preciso per quel sentimento, lo so. Un nome quasi spagnolo che piace a lui e piaceva tanto a Federico García Lorca. Ma di questo parlerò un’altra volta, non ho tempo per questo oggi. Esco nel sole acuto della mattina mediterranea, adesso. Esco a perdere tempo.