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sedersi in piazza

La cosa che mi piace di più, da qualche anno a questa parte, è vedere il mondo metro per metro, a piccoli passi. E la cosa che mi piace di più del vedere il mondo è vedere le città, metro per metro, passeggiandole (se passeggiare fosse un verbo transitivo,come dovrebbe essere) con cautela, misurandole con la pazienza dei piedi, percorrendole con la lentezza degli sguardi che mi rimangono. Ma la cosa che mi piace di più del vedere le città dentro il vedere il mondo è senz’altro fermarmi nelle piazze. Sedermi e guardare da lì il mondo, gli angoli, le persone. È diventato, negli anni, il mio nuovo modo di leggere.

Per questo mi piace che si sia un libro che mette insieme il vedere con le piazze, e mi piace che sia un libro, cioè un oggetto che si legge, e che parli di una terra, la Sicilia, che è da pochi mesi diventata la mia terra, quella che guardo ogni giorno, mentre cammino, lavoro, mi stanco, mi siedo in piazza. È un gran bel libro, secondo me: potreste regalarvelo per iniziare il 2018, per esempio. Lo pensa anche Salvatore Settis,che lo ha presentato su un autorevolissimo quotidiano e ne ha preso spunto per raccontare cosa possa e cosa in fondo debba essere una piazza di una città. E ha cominciato appunto così:

… la piazza è scenografia che non risponde a nessun copione, se non a quello della vita pulsante di quella città. Perciò, se guardiamo una piazza, nello stesso istante ci germoglia dentro, senza saperlo e senza volerlo, l’immagine mentale della città intera. Quello che, con parola un po’ goffa, si chiama talvolta l’“invaso” di una piazza è generato dalla città che lo circonda, eppure sembra che, invece, ne sia il vero centro generatore. In questa come in mille altre cose, dal cibo al cielo, la Sicilia non è solo la più grande regione d’Italia, ne è anche una sorta di sintesi al superlativo. Valeva proprio la pena che Rotoletti, Dio solo sa con quali sforzi e quanta pazienza, riuscisse a svuotare queste piazze per rappresentarle nella loro forma più pura: si vede così con piana evidenza che la piazza è in Sicilia (anzi in Italia) la creazione più originale di un’idea di città che ne fa non solo la tana o il nido, ma il tempio degli umani, il teatro della vita politica e sociale.

Ma quando avrete finito di leggere l’istruttivo articolo di Settis, tornate qui, se avete ancora tempo e pazienza. Perché c’è un altro articolo che parla oggi di una particolare piazza che è al centro di una città piccola e lontana ma è stata anche al centro di un libro che è stato al centro delle letteratura degli ultimi anni, secondo me. E lo fa molto bene, questo articolo che vi dicevo, descrivendoci un’umanità che gira in quella piazza, la quale umanità sogna di scrivere un libro proprio a partire da quel luogo, che è il luogo allegorico per eccellenza, la piazza al centro della letteratura, il luogo di cui tanti di noi hanno sognato quando erano ragazzi e pensavano, magari, di scrivere un libro anche loro.

La piazza è però dall’altra parte del mondo, sarà più difficile arrivarci con i piedi che con lo sguardo del lettore: è quella di Aracataca, che fu il paese natale di Gabriel García Márquez, ed è il luogo in cui ci immaginiamo che accadano le storie di Cent’anni di solitudine. E Susana Moreira Marques, che ha scritto l’articolo su questa piazza di questa città, la racconta così:

Come in ogni cittadina, c’è una piazza ad Aracataca, città natale di Gabriel García Márquez, ed è lì che tutto si svolge. Ci sono la chiesa, i negozi, i bar e i chioschi agli angoli delle strade. Al centro della piazza c’è una struttura rotonda che sembra fatta unicamente per farci correre attorno i bambini. Davanti alla chiesa hanno allestito uno schermo e messo delle sedie per la proiezione di un film scritto da Gabriel García Márquez. Le donne sono arrivate con i loro abiti migliori. Le più giovani hanno vestito a festa i loro figli. I vecchi siedono concentrati. I ragazzi girottolano per la piazza, con la birra in mano. Due bambine, tra i capelli i fiocchi dello stesso colore, giocano, battono le mani e cantano, intanto il film comincia. Un bimbo assonnato si gratta la testa contro la schiena della sorella. La ragazzina ha i pattini. Mi sorride. Dopo un po’ pattina fino alla sedia accanto a me per chiedermi di dove sono e dirmi che vorrebbe vedere posti lontani.Uno degli uomini che se ne sta un po’ defilato in silenzio deve essere uno scrittore. Mi hanno detto che la città è piena di scrittori, tutti aspirano a essere il prossimo Nobel colombiano, giocandosi parole fortunate come a una lotteria.

E mi piace moltissimo, infine, che la piazza diventi davvero un luogo di aspiranti scrittori e che i loro possibili libri, come dadi non ancora tirati, possano sul serio assomigliare a un biglietto della lotteria. Lo dice Susana Moreira Marques ma, sorprendentemente, e in un discorso del tutto dissimile, lo dice anche Luca Sofri, il cui articolo di questi giorni precisa (sullo scrivere i libri) idee che forse dovrebbe essere tenute a mente da noi, che popoliamo le piazze delle nostre città con i nostri sguardi un po’ stanchi e consumati dalle strade percorse e dalle piazze immaginate quando leggevamo le parole degli scrittori pensando che il mondo non avrebbe mai potuto essere raccontato meglio di così. E conclude in questo modo, Luca Sofri:

… scrivete libri se vi piace, tenetevi caro il bello di averli scritti e tutti quei lettori – da dieci a diecimila – che vi sarete meritati. Non ve lo rovinate con troppi investimenti di passioni, pensando di diventare un caso editoriale di cui tutti scriveranno: quello non succederà, fate prima con la roulette.

Davide Profumo
Davide Profumo
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