Ci sono momenti (succede perché invecchio, credo io e mi dicono gli amici), ci sono momenti in cui mi dico che no, davvero, non ne posso più. Che dovrei fare quello che faceva Pepe Carvalho e cominciare a bruciare i libri, tutti i miei libri, nel camino di casa, unop alla volta, e non pensarci più. E in particolare cominciare a bruciare i libri di poesie, due alla volta, tre alla volta, per non pensarla più, in nessun momento, mai.
Ma non ho un camino in casa, in verità. E poi, anche se lo avessi, sono sicuro che quando mi fossi deciso mi succederebbe quello che mi è successo oggi, mentre stancamente lo pensavo, che avrei bruciato tutto, tutti i libri e tutte le poesie. E invece mi sono imbattuto in una poesia di Brecht, così breve (e mi è anche venuto in mente Fortini, per tanti motivi, di cui il più facile è questo ma non è l’unico), e ho letto il commento che ne ha fatto Walter Siti (ne è uscito un libro, di questi testi e di questi commenti, mi pare di aver capito; lo comprerò) e ho trovato che la poesia di Brecht fosse splendida e che il commento di Siti lo fosse altrettanto, per una volta. E ho pensato che anche in un’epoca di commenti barbari come è questa in cui viviamo, può meravigliosamente capitare di inciampare in annotazioni come queste che riconciliano con la dotte umana di comunicare, con le parole autentiche, non quelle a buon mercato dei festival e di chissà quanti altri luoghi ancora.
E vi propongo la poesia, che è questa:
Oggi, mattina di Pasqua.
Un’improvvisa bufera di neve s’è abbattuta sull’isola.
Tra le siepi verdi c’era neve. Mio figlio piccolo
m’ha condotto a un alberello d’albicocche lungo il muro
distogliendomi da versi in cui indicavo a dito i
responsabili d’una guerra che può sterminare
il continente, quest’isola, il mio popolo, la mia famiglia
e me. In silenzio
abbiamo messo una tela di sacco
sull’albero infreddolito.
E vi propongo anche un pezzo del commento, magari questo:
Stefan, il suo figlio quattordicenne, lo trascina verso il piccolo albicocco distogliendolo da quello che per un intellettuale-scrittore potrebbe sembrare il compito più importante: scrivere una poesia dove si “indicano a dito”, quindi senza fare sconti, con nomi e cognomi, i responsabili della ormai inevitabile guerra. Un’opera engagée, come ne aveva scritte tante, e che gli avevano fruttato la dolorosa gloria dell’esilio. I vv.5-7, con la loro sintassi aggrovigliata, gli enjambements violenti, l’accumulazione insistita, rappresentano bene l’istinto parolaio dell’intellettuale, sia pure gonfio di una retorica a fin di bene: non solo Hitler, ma “tutti quelli che” contribuiscono alla guerra: i capitalisti occidentali, i borghesi ipocriti. Gli ultimi tre versi, anzi due e mezzo, dopo la cesura fortissima del v.8, oppongono a quel diluvio di parole-di-denuncia un gesto semplice, da compiere in silenzio (in versi brevi, con una sintassi elementare); è questa la vera poesia che si doveva scrivere quel giorno, non l’altra lasciata a mezzo.
E sono quasi contento di non avere un camino, nel complesso.