sentimento del tempo perso
28 Marzo 2021si tratta di accorgersi
8 Aprile 2021Quando Dante Alighieri scrive «io» sta anche scrivendo noi, è il cuore stesso dell’allegoria, il più essenziale tra gli ingredienti della sua poesia. Lo sappiamo dai primi versi della Commedia («nostra vita») ma lo sappiamo anche mentre proseguiamo terzina dopo terzina, canto dopo canto, lo leggiamo nella esemplarità delle vicende, in Francesca da Rimini e in Ulisse, nel ruolo guida di Virgilio e in quello salvifico di Beatrice, nell’incontro con gli altri che è sempre, prima di tutto, un incontro con se stesso, «io».
Quando Petrarca dice «io», solo venti o trent’anni dopo, ecco, tutto è già un po’ più complicato. Lo dice così tante volte, in effetti, che la cosa dovrebbe subito insospettirci; lo dice così tante volte (io, io, io, io…) che quella parola così breve si sfrangia subito, si consuma e si polverizza in mille frammenti, quelli dell’anima, avrebbe detto uno bravo, quando Petrarca dice «io» è subito un «altr’uomo da quel ch’io sono», altro da sé, un doppio contraddittorio, «pace non trovo e non ho da far guerra», «e nulla stringo e tutto il mondo abbraccio»… E infatti, laddove la Commedia inizia il suo lungo viaggio con un noi, il Canzoniere inizia la sua fuga immobile con un «Voi», l’alterità.
Ed eccoci dunque qui, noi. Cosa diciamo noi quando diciamo «io»?
Ha provato a spiegarlo ieri, sul blog di Kobo, Gianluca Didino, in un post tra i più interessanti che io abbia letto in questa settimana (lo trovate qui). Un post lungo e articolato, pieno di splendidi consigli di lettura (vale anche solo per quelli, in effetti) che inizia così:
Quando emergeranno dalle caverne in cui l’estinzione del loro genere li ha costretti a rifugiarsi, ultimi superstiti di un’apocalisse ermeneutica, i critici letterari del futuro guarderanno alla nostra come all’epoca in cui gli scrittori si sono confrontati con i confini dell’Io. L’esperienza individuale, con i suoi limiti, la sua dimensione identitaria e la sua essenziale incomunicabilità, è il vero argomento della letteratura degli ultimi vent’anni. Non stupisce quindi che questo Io che si osserva dall’interno sia portato, di tanto in tanto, guardare fuori di sé verso altre soggettività nel loro sviluppo temporale, e che quindi generi come sottoprodotto un interesse per il suo corrispettivo estroverso, la biografia.
Un bell’inizio. Che ci pone subito di fronte ad alcune delle nostre incapacità, ma soprattutto a quella di dire «io» sapendo quello che diciamo. E pertanto, ovvia conseguenza, all’esigenza che abbiamo di provare specularmente a dire almeno un «tu», a raccontarci come lettori e biografi, a narrare la nostra incapacità di definire l’identità. Leggete qui, per esempio:
Le biografie letterarie pubblicate negli ultimi anni, invece, sono tutte a loro modo un tentativo di venire a patti con il fatto che l’oggetto del loro racconto, proprio come l’Io individuale, è inconoscibile: non posso sapere niente di certo riguardo alle vite che non sono la mia come non posso sapere niente di certo della mia vita. E dunque il racconto che ne posso fare non sarà una ricerca tradotta in fiction, ma a tutti gli effetti fiction, nonostante o proprio a causa della quantità di informazioni documentarie portate a sostengo del racconto.
È quindi un post importante, quello di Didino, perché coglie (a mio parere) una tendenza consistente della letteratura dei nostri tempi, ci dice insomma di cosa noi, al di là dell’insopportabile chiacchiericcio quotidiano, degli argomenti che sono di moda per un paio di settimane, delle celebrazioni più o meno retoriche di autori e opere che nessuno comunque ha intenzione di leggere (nemmeno di cominciare a leggere), di cosa noi stiamo effettivamente in questi anni parlando, e soprattutto di cosa stiamo scrivendo. E lo fa consigliandoci scrittori come Borges, come Carrère, come Kafka, come Foster Wallace, insomma i più grandi degli ultimi decenni, quelli che non riusciamo mai a smettere di leggere. Non mi pare poco; anzi, mi pare così importante che non ho voluto perdere l’occasione di segnalarlo.
E c’è una poesia, una vecchia poesia di Montale, che poco meno di cento anni fa provava in qualche modo a dire una cosa simile, a mio parere. È un testo poco noto degli Ossi di seppia, un piccolo gioiello che ci verrà utile tra pochi anni, quando ricorrerà anche il centenario di questa insostituibile raccolta di versi. Lo copio qui adesso, per portarmi vigliaccamente un po’ avanti e anche perché spero che ci aiuti a capire il discorso di cui sopra (l’ultima strofa, almeno quella). Per quel poco, naturalmente, che la poesia può aiutarci a capire chi siamo e chi non siamo.
Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.
Ed era forse oltre il telo
l’azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.
O vero c’era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d’un’ignita
zolla che mai vedrò.
Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l’ignoranza.
Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra — ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.