i ritagli di novembre
2 Dicembre 2019poesia e cautela
11 Dicembre 2019A voler essere non dico sincero, ma decentemente corretto, dovrei dirvi che, in quanto lettori di giornali, di libri, di letteratura o di cultura, dovemmo, per questa settimana, limitarci alla comprensione dei cosiddetti dati Ocse-Pisa sulle competenze relative alla lettura degli studenti italiani. Cercando di non travisare la realtà e magari anche di capire perché sia così comodo (e forse anche divertente, utile, consolatorio, non chiedetemi perché) travisarla.
Ma l’argomento, nonostante tutto il baccano che gli si è fatto intorno, a me è sembrato noioso, fin da subito. E mi sono detto, fin da subito, che tutti noi sappiamo leggere qualcosa e non sappiamo leggere qualcos’altro, e che alcune pagine ci sfuggono sempre, ci sono sfuggite per sempre, non le abbiamo sapute leggere mai, ci è sfuggito spesso il senso dei nostri viaggi, dei nostri incontri (di chissà quanti…), delle nostre storie d’amore, di come siano finite, del motivo per cui sono finite, ci è sfuggito (e non smette ancora di sfuggirci) il senso del nostro continuo cercare nelle parole dei libri risposte che non sappiamo leggere, né riconoscere.
E quindi, per non annoiarmi troppo, ha deciso che era bello proporvi tutt’altro articolo (anzi no, due articoli) a proposito di due vecchi libri che forse non leggiamo più abbastanza, che abbiamo dimenticato (il che è un altro efficacissimo modo di non saperli leggere). Il primo è un libro bellissimo, davvero. Lo scrisse Luigi Meneghello tanti decenni fa e lo lessi io (capendoci chissà quanto) altri decenni fa, era il 1991, se mi ricordo bene (me lo consigliò un amico, è sempre bello quando accade). È un romanzo così importante che non si sa perché lo abbiamo così facilmente dimenticato, e in questa settimana un po’ surreale se ne è parlato sul web, così:
Un libro fondamentale della cultura paesana e della lingua della prima metà del Novecento: unisce umorismo leggero a sensibilità e cultura linguistica. Spassoso, certo, ma anche dissacrante e tenero. Il dialetto diventa così l’ultimo veicolo identitario e riporta il lettore in un Veneto che in parte esiste ancora, soprattutto nei paesini di provincia, e che continua a vivere grazie anche alla sua lingua. Libera nos a Malo è una “cronaca del ritorno” di Meneghello nel paese (e nella comunità) di Malo. All’incipit – “Si comincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande” – corrisponde simmetricamente una didascalia finale, “Abbiamo riso a lungo imbarazzati, e poi siamo andati via. Volta la carta la ze finia”.
Il secondo libro invece non è affatto bellissimo. Anzi, per quello che io ricordo (l’ho letto pochi anni dopo Meneghello, l’ho dimenticato però molti anni prima) è un libro un po’ bruttino. Ma è un romanzo di uno scrittore che stiamo dimenticando, non capisco perché, come se ci paresse inattuale, come se pensassimo di non avere più nulla da ascoltare da lui. È un peccato. Lo scrittore è Paolo Volponi, il libro di cui l’articolo parla (lo trovate qui; ma è anche una sinteticissima introduzione a Volponi, e soprattutto per questo mi piace segnalarla) è Il pianeta irritabile, uno dei suoi meno belli e meno conosciuti. Ma è forse passando da qui che ci verrà la curiosità (o la tentazione, o la necessità) di riprendere in mano i suoi libri migliori, quelli importanti, quelli che sarebbe meglio non dimenticare. Io li sto già andando a cercare, vi dico la verità, nascosti dietro altri libri più recenti che dimenticherò negli anni a venire…
Anche perché, a voler essere davvero sincero (se ci tenete che io lo sia un po’) la mia opinione è che «saper leggere» coincida per lo più con il «saper cosa leggere». E l’indagine Ocse-Pisa, da questo punto di vista, ci sarà sempre, ahimè ahimè, completamente inutile.