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Sanguinamenti iatrogeni e prognosi nei pazienti con sindrome coronarica acuta

Sanguinamenti iatrogeni e prognosi nei pazienti con sindrome coronarica acuta

M.Lettino
UTIC – Policlinico S.Matteo, Pavia

 

L’associazione tra sanguinamenti maggiori e mortalita’ nei pazienti con sindrome coronarica acuta (SCA) trattati con terapia antitrombotica appare forte, consistente, temporale e tanto maggiore quanto piu’ elevata e’ l’entita’ del sanguinamento. E’ quanto concludono gli Autori di un lavoro pubblicato su uno degli ultimi numeri di agosto di Circulation, dopo aver riesaminato retrospettivamente le popolazioni del registro OASIS e degli studi OASIS 2 e CURE, per un totale di 34146 pazienti con sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento persistente del tratto ST.

Gli Autori infatti rilevano che coloro che manifestano un sanguinamento maggiore durante l’ospedalizzazione hanno un’incidenza di morte a 30 giorni superiore a quella dei soggetti che non sanguinano; un incremento della mortalita’ di minore entita’ (1.5 volte) ma ancora significativo si documenta anche nel follow up che va da 30 giorni a 6 mesi.
Benche’ infine i pazienti colpiti da sanguinamento maggiore siano mediamente piu’ anziani, diabetici o con una storia di stroke, o abbiano una alterazione della funzione renale e piu’ frequentemente alterazioni dinamiche del tratto ST dell’elettrocardiogramma al momento della presentazione, il sanguinamento di per se’ rimane una variabile indipendentemente associata all’incremento di mortalita’.

Nella stessa casistica emerge anche una correlazione tra sanguinamenti maggiori e lo sviluppo di eventi trombotici come l’infarto miocardico acuto o lo stroke, che si circoscrive solo ai 30 giorni successivi alla complicanza emorragica: per dare alcuni numeri nei quali si e’ compresa anche la morte, 1 paziente ogni 5 soggetti che hanno manifestato un sanguinamento maggiore in fase acuta sviluppa morte, (re)IMA o stroke nel mese successivo mentre solo 1 su 20 lo fa tra coloro che non hanno avuto emorragie.

I risultati dell’analisi di Eikelboom et al hanno tutti i limiti delle associazioni osservazionali tra eventi eseguite a posteriori, non potendo randomizzare prospetticamente i soggetti con sindrome coronarica acuta per l’occorrenza o meno di un sanguinamento maggiore. E’ anche vero che l’associazione emorragia maggiore/mortalita’ si presta all’ ipotesi interpretativa della cosiddetta “associazione per definizione”, che farebbe considerare la morte una diretta conseguenza dell’emorragia. Tale possibilita’ e’ pero’ esclusa dal fatto che la correlazione si e’ mantenuta forte e consistente anche dopo aver escluso dall’osservazione i soggetti deceduti entro 3 giorni e entro 7 giorni dall’emorragia, ed e’ stato possibile dimostrare che circa un terzo dei decessi si e’ manifestato dopo l’insorgenza di un infarto miocardico e quindi di un evento trombotico.

Esiste peraltro una plausibilita’ biologica all’associazione tra sanguinamenti maggiori e complicanze trombotiche a distanza. Gli Autori hanno formulato alcune ipotesi che vengono riportate di seguito:
1. L’occorrenza di una emorragia comporta la sospensione di ogni trattamento antitrombotico, inclusi aspirina, clopidogrel, eparina a basso peso molecolare o farmaci anticoagulanti orali, che priva il paziente del potenziale beneficio degli stessi su endpoint di efficacia, come l’infarto miocardico, lo stroke, la recidiva di ischemia e la morte cardiovascolare.
2. Il sanguinamento provoca un danno ipossico tissutale dovuto all’ipoperfusione e alla ridotta disponibilita’ di globuli rossi ricchi di ossigeno, con aggravamento dei danni ischemici.
3. L’emorragia, infine, puo’ provocare una aspecifica attivazione piastrinica, volta a ripristinare l’emostasi, che nel paziente con sindrome coronarica acuta si tradurrebbe in una amplificazione della trombosi.

A queste considerazioni si aggiungono alcune evidenze gia’ emerse in studi osservazionali precedenti circa la correlazione tra le trasfusioni di sangue praticate per anemizzazione a pazienti con sindrome coronarica acuta e l’occorrenza a 30 giorni di eventi trombotici importanti come la morte cardiovascolare o l’infarto. Nel 2004 Rao et al avevano pubblicato infatti i risultati dell’analisi post-hoc di una casistica di 24112 pazienti con sindrome coronarica acuta arruolati in alcuni trial (GUSTO IIb, PURSUIT e PARAGON B) che avevano sperimentato l’efficacia di farmaci antitrombotici maggiori. Il 10% dell’intera casistica aveva ricevuto la trasfusione di almeno una sacca di sangue nel corso dell’ospedalizzazione e in questo sottogruppo l’incidenza di morte o dell’associazione di morte e infarto miocardico a 30 giorni risultava almeno triplicata rispetto a coloro che non erano stati trasfusi.

All’anemizzazione si associa pertanto un ipotetico effetto sfavorevole della stessa trasfusione, che e’ stato imputato alla deplezione di 2,3 difosfoglicerato e di ossido nitrico (NO) dei globuli rossi conservati. In mancanza di 2,3 difosfoglicerato l’emoglobina in essi contenuta avrebbe una maggiore affinita’ per l’ossigeno, condizionando un mancato rilascio dello stesso a livello tissutale e paradossalmente una sorta di sottrazione dell’ossigeno da parte dei globuli rossi conservati ai globuli rossi nativi e ai tessuti stessi. La minore disponibilita’ di NO e, anche in questo caso, la sottrazione da parte dei globuli rossi conservati ai tessuti periferici, favorirebbe la vasocostrizione e il malfunzionamento endoteliale.

Benche’ non emerga dai dati di Eikelboom et al quanti pazienti con sanguinamenti maggiori abbiano fatto trasfusioni, gli Autori fanno riferimento anche a questa componente per spiegare in parte l’incremento di mortalita’ ed eventi trombotici della casistica esaminata nel loro lavoro, autorizzandoci a pensare che quasi tutti i pazienti con un sanguinamento maggiore siano stati trasfusi dai rispettivi medici curanti.

Rivalutazione critica dei risultati dello studio OASIS 5

Lo studio MICHELANGELO OASIS 5 e’ stato condotto nei primi anni del 2000 per verificare la non inferiorita’ di un inibitore selettivo del fattore X attivato, il fondaparinux, rispetto all’enoxaparina nei pazienti con sindrome coronarica acuta non associata a sopraST persistente. Nello studio sono stati arruolati oltre 20000 pazienti per i quali e’ stato valutato un endpoint primario di efficacia a 9 giorni, rappresentato dall’associazione di morte, infarto e ischemia refrattaria, e un endpoint di sicurezza, costituito dai sanguinamenti maggiori secondo i criteri TIMI. La popolazione dello studio e’ stata rivalutata anche a 30 gg e a 180 giorni, considerando l’incidenza degli eventi cardiaci avversi maggiori in associazione e singolarmente. E’ stata prevista inoltre la valutazione del cosiddetto beneficio clinico netto, costituito dalla somma degli endopoint di efficacia e di sicurezza, per evidenziare una eventuale superiorita’ del fondaparinux sull’eparina a basso peso molecolare, qualora il minor numero di sanguinamenti maggiori si fosse tradotto in una riduzione degli eventi trombotici a distanza.
Lo studio OASIS 5 puo’ essere considerato il primo trial di terapia antitrombotica nei pazienti con SCA nel quale si sia documentato in modo prospettico una stretta correlazione tra l’entita’ delle complicanze emorragiche nella fase acuta e la mortalita’ a distanza, avendo rilevato un significativo incremento di quest’ultima a 30 giorni nel gruppo di pazienti trattati con il farmaco che ha condizionato il maggior numero di emorragie maggiori durante la fase ospedaliera.
Va da se’ pertanto che lo studio rappresenta un’ulteriore conferma all’ipotesi di Eikelboom maturata dalle rivalutazioni post-hoc dei trial precedenti e un ottimo punto di partenza per ricerche future.

In conclusione. Le terapie antitrombotiche, soprattutto quando associate alle procedure interventistiche di rivascolarizzazione coronarica, hanno grandemente migliorato la prognosi dei pazienti con sindrome coronarica acuta, comportando inevitabilmente un aumento delle complicanze emorragiche. Cio’ e’ imputabile in parte alla maggiore efficacia antipiastrinica o anticoagulante dei nuovi farmaci e in parte alla necessita’ di associare diversi farmaci antitrombotici fra loro. Benche’ l’entusiasmo iniziale dei ricercatori abbia valorizzato soprattutto la riduzione degli eventi ischemici prodotta dai vari preparati in sperimentazione, assegnando una minore rilevanza ai sanguinamenti, eccezion fatta per quelli pericolosi per la vita, i nuovi studi osservazionali e prospettici hanno riconsiderato il legame tra emorragie e prognosi, ponendo in luce la sfavorevole associazione tra sanguinamenti maggiori in fase acuta e mortalita’ a medio termine. L’impiego di trasfusioni, che apparentemente potrebbe porre rimedio in modo rapido alla perdita ematica, si e’ a sua volta rivelato sfavorevolmente correlato all’incremento di eventi.
Le future ricerche andranno pertanto rivolte alla promozione di farmaci antitrombotici cha abbiano il miglior profilo rischio/beneficio in termini di emorragie e prevenzione degli eventi cardiovascolari, alla selezione per ciascuno di essi delle posologie minime indispensabili al raggiungimento di un efficace antiaggregazione-anticoagulazione, nonche’ alla individuazione di marcatori di rischio per emorragia nei pazienti da trattare e di modalita’ di intervento, in caso di sanguinamenti maggiori, che non siano a loro volta potenzialmente dannosi.

Bibliografia

1.Eikelboom JW et al. Adverse impact of bleeding on prognosis in patients with acute coronary sundromes. Circulation 2006; 114: 774-782
2.Rao SV et al. Relationship of blood transfusion and clinical outcomes in patients with acute coronary syndromes. JAMA 2004; 292: 1555-1562
3.The Fifth Organization to Assess Strategies in Acute Ischemic Syndromes Investigators. Comparison of fondaparinux and enoxaparin in Acute Coronary Syndromes. N Engl J Med 2006; 354: 1464-1476

 

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