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sangue antico nelle vene

Un giorno dell’estate del 1948, il trentaseienne Giorgio Caproni […] si trova a Genova e passa in piazza Bandiera. D’improvviso, prende allora corpo per lui uno di quegli eventi che vorrei definire «momenti alti» della vita. Attimi in cui, in un lampo, diverse contingenze convergono a condensare un’esperienza profonda, toccante e decisiva, un’epifania che illumina, con forte impatto emotivo, un qualche asse portante dell’esistenza. Fra le rovine causate dai bombardamenti, Caproni scorge una settecentesca statua di Enea, col vecchio padre Anchise sulle spalle e il piccolo figlio Ascanio per mano. Sebbene fermo nella sua statuaria (e barocca) coniazione nel marmo, Enea sta «passando» qui, in Genova, da piazza Bandiera, sorpreso in un ‘fotogramma’ della sua annosa fuga obbligata dalla patria distrutta, e nella sua inesauribile ricerca di un nuovo spazio in cui stabilirsi. Istantaneamente si manifesta a Caproni un travolgente significato di quella apparizione: Anchise è il passato, una tradizione invecchiata e logora, Ascanio il futuro in erba, Enea lo specchio di Giorgio Caproni stesso, uscito a stento vivo da una guerra tremenda, e ora immensamente solo nella responsabilità di ‘ricostruire’ per sé e i propri cari. Al contempo, quell’Enea è anche lo specchio di tutta l’umanità della sua generazione, alle prese con le medesime urgenze, pressioni e difficoltà. Ragioni tutte per cui Caproni non tarderà a definire quell’Enea «quanto di più commovente io abbia visto sulla terra».

Ma non vi sto parlando di profughi, anche se forse dovrei. E non vi sto parlando di fuggitivi in cerca di una terra promessa, di una casa, di anziani che muoiono in viaggio, di donne che scompaiono, di naufragi e di morte, anche se probabilmente dovrei. Vi sto parlando invece di come la letteratura del passato possa essere viva e presente, di come agisca, di come possa essere ricordo vero, sangue antico nelle nostre vene.

Per questo, in nome di questo sangue antico, ho trovato bellissimo il libro uscito pochi giorni fa su un aspetto della letteratura di Giorgio Caproni che conoscevo poco, e che sto imparando ad amare. Caproni aveva incontrato Enea, in un giorno dell’estate del 1948: e quell’incontro era stato per lui una «epifania», la scoperta di una profondità letteraria, un battito di sangue antico nelle sue vene che aveva alimentato una parte delle sue meravigliose poesie. E il libro di cui sto provando a parlare racconta proprio questo piccolo miracolo letterario: si intitola Enea e Caproni (che bel titolo, semplice e bellissimo, senza giochi di parole, che bel titolo: la storia di un incontro… Che cos’è la letteratura? Mi chiedono gli studenti. È un incontro, rispondo io) e ci dice che davvero si incontrano i poemi del passato e questi davvero diventano vita, diventano suono presente, voce di oggi che ci arriva dalle nostre radici, linfa come sangue che scorre fino a noi.

L’Enea che incontra, che scuote e impietosisce Caproni, quel «figlio e nel contempo padre», che «sofferse tutte le croci e le delizie che una tale duplice condizione comporta», l’Enea insomma «meno eroe che uomo, e per di più uomo posto al centro di un’azione suprema (la guerra) proprio nel momento della sua maggior solitudine», non è l’eroe su cui aveva insistito la retorica fascista, non è nemmeno l’uomo del destino, l’iniziatore della gens Iulia, ma è un personaggio tragico, un uomo che non ha più patria, che ha perso la moglie, uno sconfitto che non può più essere del tutto figlio e che per il proprio figlio deve ricostruire interamente il futuro. Nella rilettura caproniana, Enea è un esule perenne, insomma «sono io, siamo noi».

Così scrive Giuseppe Grattacaso in uno dei post che presentano questo libro (lo trovate qui). Mentre Filomena Giannotti, nella sua bella introduzione al volume (la trovate qui, insieme alle parole di Alessandro fo con cui ho aperto il post), scrive così:

È, dunque, quello di Caproni, un Enea vivo e concreto, non scolastico e libresco, anzi antieroico e antiretorico. E, in quanto nato in un preciso e drammatico momento storico (scampando ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, dopo essere ‘sopravvissuto’ all’incendio di Troia e alle peregrinazioni nel Mediterraneo), fortemente simbolico: sospeso tra passato e futuro, privo di una guida, in uno stato di confusione ‘generazionale’, esule in cerca di un approdo e, soprattutto, terribilmente solo e terribilmente attuale. L’identificazione non poteva che farsi esplicita («Enea sono io») e totale («siamo tutti»).

Ecco, volevo dirlo: ci sono modi di far rivivere il nostro passato letterario che hanno forza ed energia, che non sono né retorici né carnevaleschi né vanamente celebrativi, che sanno cogliere un nesso, che sanno giungere alle radici. E poi c’è il resto: la letteratura come pizza, il passato come involucro, le celebrazioni come infantilizzazioni. È quello che penso del cosiddetto «Dantedì», recentemente e infelicemente istituito. Lo ha scritto, quello che penso, Stefano Jossa, in un lungo articolo (lo trovate qui) di cui potete leggere anche solo la prima metà, quella meno letteraria. Nella quale trovate scritto così:

Essendo il carnevale […] un giorno di eccezione anziché normalità, in cui l’eccezione serve proprio a ribadire e rifondare la regola, i politici si rivelerebbero straordinariamente sapienti nell’applicazione dell’aureo motto populista panem et circenses: re per un giorno, il festeggiato ritornerà suddito per il resto dell’anno. Dante celebrato il 25 marzo potrà essere legittimamente dimenticato a partire dal giorno dopo e fino al 24 marzo dell’anno successivo: non sarà mica tutti i giorni, la sua festa?  Che una giornata dantesca possa avvicinare giovani e meno giovani alla lettura della Divina Commedia è naturalmente solo auspicabile, ma le giornate di questo tipo, one-off, servono di solito, lo ha spiegato Daniele Giglioli qualche anno fa a proposito della ben più seria giornata della memoria, a trasformare quella che dovrebbe essere un’operazione quotidiana in un evento spettacolarizzato e salvifico, che esonera dalla pratica quotidiana proprio in virtù della partecipazione all’evento stesso. Succede insomma che basta dire di aver partecipato alla giornata della memoria o al Dantedì per sentirsi esentati dal pensare alla Shoah o dal leggere la Commedia. Il rischio è dunque più forte dell’auspicio. Con l’invito a celebrare piuttosto che capire attraverso la lettura paziente e la faticosa interpretazione, la storia si riduce a lezioncina morale e il passato si appiattisce sull’attualità: «non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo»

Vabbè, lo so, era meglio parlare di Enea, è vero. Non parlo più del Dantedì (il quale ha un nome spaventoso, ma almeno per quest’anno ha per me un singolare pregio: cade di mercoledì, mio giorno libero a scuola, potrò serenamente esimermi dai festeggiamenti…). Ma un’ultima cosa la volevo aggiungere: le ricorrenze, quando sono occasione di incontro vero, sono anche bellissime. E oggi sono trent’anni esatti dalla morte di Giorgio Caproni; e da oggi, appunto, abbiamo anche il libro con cui possiamo ricordarlo. Nel senso di ricordarlo davvero.

Davide Profumo
Davide Profumo
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