un certo disordine
1 Settembre 2018un grido
13 Settembre 2018Leggere è bello, rileggere forse lo è anche di più. Perché leggere è quasi un essere trasportati (dalla trama, dall’interesse, dalle parole, dai ragionamenti), mentre rileggere ha una dimensione che a me pare più attiva, quasi fosse un issare le vele, prendere in mano il timone, navigare, guidare più che essere guidati.
E poi, tra le forme del rileggere (che sono tante: rileggere un brano, rileggere ad alta voce per altri che non hanno mai letto, rileggere di nascosto, rileggere solo le pagine che ci danno ragione…), c’è quella dell’affidarsi alle letture degli altri che resta una delle mie preferite. Potete chiamarla la «lettura della critica letteraria», se vi piace di più: ma è anch’essa un rileggere, sebbene guidati da un altro timoniere.
Pertanto, mi pare utile (oggi, come già in altre occasioni) proporvi alcune letture critiche di grandi autori che potranno essere per voi (come per me) delle riletture, degli sguardi nuovi su pagine vecchie, che abbiamo già amato e che già ci hanno trascinato con la loro forza. E siccome è già settembre, l’anno sta ricominciando con il suo carico esplosivo di incognite, come è inevitabile che sia, e tutti abbiamo qualche incertezza (se non proprio qualche paura) mi è sembrato di buon auspicio averne trovate ben tre, di tali riletture, e mi è sembrato generoso proporle tutte, e subito.
La prima riguarda Italo Svevo. Propone una lettura sapienziale della Coscienza di Zeno; e lo fa con parole persuasive, presentando un romanzo importante con voce nuova, attraente e suggestiva. La potete leggere qui, se il passo che segnalo vi invoglia abbastanza:
«La Coscienza di Zeno» è un capolavoro di letteratura sapienziale, uno di quei libri, cioè, che ci insegnano ad accettare i limiti della natura umana. Come Shakespeare e Cervantes, come Montaigne e Goethe, come Proust e Freud, anche Svevo ci mostra la saggezza con cui affrontare la vita. E lo fa attraverso un’ironia – retaggio di un ebraismo abiurato – traboccante di umanità: un’ironia che è la valutazione distaccata dello scarto che esiste tra la realtà e la nostra coscienza, e del necessario compromesso che dobbiamo trovare tra i due estremi. Un compromesso con la mediocrità, appunto. Nel senso di un’aurea via di mezzo, perché nella mediocrità, nei meandri della medietà, l’umanità vibra più che altrove, ed è più riconoscibile. Zeno Cosini non ambisce a rappresentare alcunché, se non la propria sconfitta, il suo fallimento di uomo precipitato nella casualità della vita, in una contingenza senza redenzione né dannazione. Sennonché, come Freud ci ha insegnato, il caso non esiste.
La seconda è più un incontro che una rilettura. Ma ha prodotto in me i medesimi effetti: la voglia di riprendere in mano tutti i libri di Borges e di rileggerli tutti, da capo, sperando di avere ancora il tempo per tutte le necessarie riletture della mia vita (che è un tipico pensiero di settembre, ne converrete). L’incontro è raccontato dalle parole di Sergio Garufi e trova il suo apice (a mio parere) in questo splendido passaggio:
Dopo aver ascoltato quell’antologia privata gli feci una domanda stupida, di cui mi pentii subito: con quali versi voleva essere ricordato? Io ne avevo tanti in mente suoi, ma la sua replica fu secca. “No me gusta la idea de que me recuerden después de muerto. Yo quiero morir entero, olvidarme y ser olvidado”. Ammutolii. Avevo già letto affermazioni del genere in qualche intervista, ma credevo fosse un eccesso di falsa modestia, invece non c’era alcuna affettazione nelle sue parole. Quasi indovinando i miei pensieri, aggiunse: “Estoy un poco harto de mí mismo”. Forse era stanco di viaggiare, di recitare la parte del guru al quale chiedono sempre le stesse cose. Ma se desiderava essere dimenticato, perché scrivere libri?, lo incalzai. E lui mi spiegò con pazienza, come per tranquillizzarmi: “Escribo un libro para olvidarme de ese libro, y escribo también para olvidarme”. Disse che voleva smettere di svegliarsi ogni mattina ed essere Borges.
E infine c’è Ungaretti. Che, vedrete, sarà una grande sorpresa, la rilettura più originale di tutte: l’ha fatta per noi Matteo Marchesini e dice cose che non facilmente io ho confessato ai miei amici lettori (e che mai avrei detto in una classe di liceo, per esempio). E però ha un po’ ragione. O forse anche più che un po’. Forse bisogna partire da questa rilettura per riprendere in mano le poesie di Ungaretti senza quell’idea che ce ne hanno lasciato le letture delle scuole medie. Anche perché, per esempio, ci spiega come mai è da così tanto tempo che non le riprendevamo più in mano:
Non siamo qui davanti al narcisismo querulo e fragile di Saba, né ovviamente alle mitiche spacconate di D’Annunzio: semmai alla tattica e alla strategia tenaci di un autore novecentista che pretende di essere insieme austero e “imperiale”, avventuriero d’eccezione e “uomo qualunque tra gli uomini” – che recita oracoli in un deserto da stiliti simbolisti, ma insieme briga per un immediato, impiegatizio posto al sole della Storia. E che dire poi di quella cattedra “richiesta per pressione”? Lo chiede la gente! Cioè, in realtà, un’élite professoral-letteraria identificata con l’opinione pubblica in modo sfacciatamente demagogico. L’“uomo di pena” del Carso si trasforma presto nell’“uomo di penna” della velenosa parodia di Noventa, secondo cui non un’“illusione” ma un’“accademia” gli basta per farsi coraggio.
Ma a noi, che siamo assai meno ambiziosi, bastano alcune riletture per farci un po’ di coraggio. Issare le vele e aspettare che settembre ci conduca dove siamo destinati a venire condotti. Con i libri che ci hanno accompagnato fino a qui, e poco d’altro, in effetti.