La TAVI nei pazienti con rischio intermedio: Risultati del trial SURTAVI
10 Maggio 2017Risultati a due anni del trattamento endovascolare dell’ictus ischemico
11 Maggio 2017Sarà necessario, non solo per la ricorrenza che come di consueto ci richiama a noi stessi, sarà davvero necessario, lungo questo anno 2017 in cui egli avrebbe compiuto cento anni, tornare a parlare ripetutamente di Franco Fortini, del lascito del suo lavoro culturale, di quello che resta e di quello che non resta più. Sarà necessario perché è, a mio parere, proprio nel lavoro di Fortini che sarà manifesto il nostro riconoscimento delle radici novecentesche che ancora ci nutrono così come di quelle che abbiamo (non so quanto colpevolmente) abbandonato.
Potremmo, obbedendo a questo senso di necessità, partire per esempio da queste parole, scritte da Luca Lenzini:
Nel 1992, due anni prima della morte, Fortini redasse una breve “voce” dell’Autodizionario degli scrittori italiani curato da Felice Piemontese. La voce “Fortini” scritta da Fortini ha anche un sottotitolo: Per una piccola enciclopedia della letteratura italiana, anno 2029. Egli non declinava al presente, quindi, la sintesi del proprio operare, ma ne proiettava la ricezione in un futuro distante oltre un trentennio, lo spazio di almeno due generazioni; un tempo prossimo al nostro, ormai. In quella pagina di Enciclopedia, dove si parla del saggista e dell’intellettuale militante, si legge: «La maggior parte delle prose polemiche e politiche (di grande interesse documentario) sono indubbiamente invecchiate. Non così talune prove narrative e alcune scritture autobiografiche e critiche. Spenta la controversia e lontana dall’applauso come dalla denigrazione, spogliata dalle interpretazioni psicologistiche, dell’opera di F. il nostro tempo considera soprattutto il significato degli scritti poetici.»
Oppure, sempre seguendo le piste proposte da Lenzini, che di Fortini è uno degli studiosi più acuti, potremmo ricordare le efficacissime e azzeccate parole proposte da Roberto Galaverni:
La poesia di Franco Fortini non ha mai avuto il suo tempo. Non l’ha avuto lungo il corso della vita del poeta, e non l’ha nemmeno oggi, a vent’anni dalla sua scomparsa. Il tempo atteso, promesso, scommesso da questa poesia potrebbe anche non venire mai. Certo è che l’adempimento dell’utopia rivoluzionaria appare oggi, se mai possibile, anche più arduo e lontano di quanto non apparisse a Fortini, che pure già lo poneva dietro la curva delle cose visibili. Ma il fatto è che il suo verso vive proprio dell’essere in discontinuità col presente, fuori tempo, perfino al di là della storia. L’anacronismo coincide con la vitalità, con la presenza stessa dell’opera poetica di Fortini. Ne costituisce, in sostanza, la giustificazione. Così, se non è mai il tempo della sua poesia, è però sempre il tempo per la sua poesia. Questo è il suo paradosso originario, e non può essere sciolto.
In ogni caso, da qualsiasi delle considerazioni critiche noi desiderassimo partire, io credo che non potremo mai fare a meno di cogliere il carattere essenziale della parola poetica nell’opera di Fortini. Come se tutto, anche ciò che fu intellettualmente più articolato e provocatorio, finisse sempre per trovare il suo fuoco nell’opera in versi in quell’andare a capo così ritmato e assoluto, in quel carattere «fuori del tempo» di uno degli scrittori più coinvolti nel suo tempo che abbiamo creduto di leggere.
E quindi, anche se il post di Lenzini resta il più interessante di oggi, io credo che non si possano trascurare nemmeno queste altre parole, scritte da Nicolò Porcelluzzi, che molto ci spiegano della dimensione universale della poesia fortiniana, che infatti non sappiamo dimenticare. E forse non ha torto Porcelluzzi quando ci spiega così, tanto di Fortini quanto di altri che, come lui, ci hanno restituito il giusto (a volte amarissimo) delle parole originarie di cui sono fatti i versi:
Il poeta è spregevole perché ricorda il fuoco a chi l’aveva dimenticato; perché fallisce, perché ci riprova, blatera di plastificazione del linguaggio. Il poeta infatti tradisce una delle clausole del matrimonio con la vita adulta, vive un rapporto non esclusivo con la lingua, un rapporto che non stigmatizza la perversione della saturazione semantica – cioè ripetere, modellare, esasperare il linguaggio per il piacere di farlo, rompere i nomi, lasciare la parola al suono, lasciare la parola al significato, lasciare la parola alla parola.