«su, ricominciamo»
8 Dicembre 2021raramente
15 Dicembre 2021Una delle cose ho sempre trovato più difficili, nel mio insegnare la letteratura contemporanea nelle scuole, riguarda il tema della malattia. Che è un tema centrale della modernità: da Leopardi a Italo Svevo, da Franz Kafka a Thomas Mann a tantissimi altri, non se ne può fare a meno. Ma che resta anche un tema spesso estraneo agli adolescenti che devono ascoltarmi, i quali forse lo sentono lontano, lontanissimo, lo imparano senza comprenderlo davvero e ne sceglierebbero, se potessero, ben altri: l’amore, la ricerca della propria identità, la violenza, la pace, la natura…
E però la malattia è stata nel Novecento una delle grandi lenti d’ingrandimento usate da artisti e poeti per parlare dell’uomo e delle sue fragilità: un «formidabile strumento conoscitivo», come scrisse un grande critico, proprio a proposito di Leopardi. E rinunciare a questo strumento è impossibile, sicuramente è dannoso, ogni anno, ad ogni quinta di scuola superiore, il tentativo va fatto, il tema della malattia va affrontato, gli studenti stanno lì seduti, le parole risuonano nell’aula, il tentativo fallisce, e sarò più bravo la prossima volta, mi dico ogni anno.
Ho provato a mettere in ordine questi pensieri stamattina, non solo perché sto leggendo Svevo con gli studenti di quinta, in questi giorni, ma anche e soprattutto perché ho letto un bel post a proposito di un piccolo gioiello ottocentesco che parla (anche) di malattia.
Il gioiello è La morte di Ivan Il’ič, di Lev Tolstoj. Il post (che trovate qui) lo ha invece scritto Alessio Trabucco e ci mette di fronte a un classico che forse non nominiamo abbastanza. Ma è un grande libro sulla malattia oltre che sulla morte. E quindi, forse, anche un piccolo libro sul lavoro dei medici (i primi che vedono la malattia; gli ultimi spesso che vedono respirare un ammalato) e sugli esseri umani a cui si trovano di fronte, mentre lavorano. Trabucco scrive così:
Innanzitutto, la malattia. Prima tutto scorreva placidamente, i giorni si rincorrevano, la vita era scandita dalla routine quotidiana. Poi la consapevolezza che l’orologio si è rotto, che la fine può essere vicina. L’uomo diventa allora irrequieto e ciò disturba la quiete degli altri.
E poi subito sotto:
Ma anche il malato, sebbene si renda conto del proprio decadimento, convivendo ogni giorno con sé stesso fatica a percepirlo appieno, finché non si vede un giorno dall’esterno e capisce che non può più tornare indietro. Tolstoj rende l’epifania in modo semplice e magistrale, attraverso l’artificio convenzionale dell’arrivo di un estraneo: il cognato che va a fare visita ignaro di tutto. “Sentiti i passi di Ivan Il’ič, il cognato aveva alzato la testa e lo aveva guardato per un secondo in silenzio. Da quello sguardo Ivan Il’ič aveva capito tutto. Il cognato aveva aperto la bocca come per esclamare qualcosa, poi l’aveva richiusa.” A quel punto si guarda allo specchio e si rende conto di essere un morto che cammina, un uomo solo.
Finché Ivan Il’ič non muore e noi ci rendiamo conto, avendo letto degli ultimi suoi giorni, di un’altra cosa che Trabucco descrive benissimo e che rende questo brevissimo romanzo un piccolo gioiello, e Lev Tolstoj uno scrittore classico, e la grande letteratura uno dei pochi strumenti a nostra disposizione per comprendere chi siamo:
Nel raccontare vita e morte, senza miracoli, di un uomo tanto vitreo e inconsistente come Ivan Il’ič, Tolstoj racconta vita e morte di ogni uomo che abbia mai calpestato la faccia della terra.
Vabbè, io credo che abbiate ormai capito: non era di me e dei miei studenti che volevo scrivere stamattina. Eravate voi medici il mio argomento. Ho pensato che potevo permettermi di darvi un suggerimento, ho pensato che siamo ormai abbastanza in confidenza. E ho anche pensato che forse succede anche a voi quello che succede agli adolescenti, che anche a voi ogni tanto sfugga il senso umano della malattia, quella grave.
Loro, i ragazzi, perché la sentono troppo lontana, voi per la ragione contraria: ci vivete in mezzo, è troppo vicina a voi, la date per scontata, sapete che cos’è ma dovete trascurare tutto ciò che essa implica per chi è ammalato. E avete la comprensibile tentazione di non riconoscere più Ivan Il’ič, seduto o sdraiato davanti a voi, in attesa. E di non riconoscere più me, i miei studenti, voi stessi, nella sua vita senza miracoli.