una cosa che si chiama letteratura
2 Ottobre 2019c’entra l’amore
13 Ottobre 2019C’è un breve racconto (no, non è affatto un racconto, piuttosto un rapido saggio narrativo, una puntura di spillo) che dovremmo tutti leggere nell’imminenza dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura. Lo ha scritto Ermanno Cavazzoni, questo rapido saggio narrativo, e parla proprio di premi letterari, di chi li vince e di chi li perde, e della sofferenza di chi li perde ma anche della sofferenza di chi li vince. Un rapido saggio bellissimo, che magari vi farà venire voglia di leggere tutto il libro di cui fa parte (a me è venuta subito). E poi Cavazzoni è davvero uno bravo, bravissimo, lo abbiamo già detto altre volte, e il suo rapido saggio-racconto (lo trovate qui), a un certo punto dice così:
C’è stata un’epoca in cui vincevo continuamente dei premi specie nel sud d’Italia, ho vinto a Palmi in Calabria, a Cosenza, a Catania, a Roma, a Barletta, in Lucania, a Bari, e in altri posti minori che non ricordo. Mi sono convinto a posteriori che mi appoggiava la ’ndrangheta; frequentavo a quei tempi dei calabresi, e il modo di reclutarti è incominciare a farti dei favori. Non so come pensavano di usarmi e perché la ’ndrangheta si interessava alla letteratura. Penso che la nobile arte della letteratura, così povera e inerme, dovesse nascondere traffici che neppure immagino, non dico armi e droga, non ho mai riscontrato morti ammazzati attorno a me o in parallelo ai premi o segnali come teste di pecora mozzate o resti di incaprettati; tenevano un profilo più basso; ma ad esempio non ho mai vinto a Napoli, dove invece domina la camorra che mi era ostile, per il fatto che mi ritenevano affiliato o comunque simpatizzante della ’ndrangheta.
Però c’è anche la poesia, lo sapete che mi stanco mai. E oggi Antonio Prete, che è critico e poeta di alto valore, ha rilasciato un’intervista, in cui parla della sua nuova raccolta di versi, che dice, a mio parere, cose molto interessanti sull’essere poeta oggi e sull’esserlo sempre, in generale. La trovate qui, l’intervista. A me è piaciuto molto questo passaggio, che dice cose che penso e che ripeto spesso anche se non sono capace di ripeterle con parole così esatte come fa Antonio Prete:
La poesia è contatto – tutti i sensi sono chiamati a raccolta – con la poesia di altri poeti, ed è rapporto con una lingua che ha una storia, ha luoghi vertiginosi, abissi, estensioni estreme del dire e del sentire, del vedere e dell’immaginare. La poesia come amore della lingua. Mi viene in mente un aforisma appunto di Jabès, che certo non è stato un formalista, ma uno che si sporgeva sul tragico dell’epoca: “La poesia ha soltanto un amore: la poesia”. In questo, forse più che negli altri miei libri, è dichiarato il rapporto con i poeti, dico con i grandi nomi della poesia. Le imitazioni e alcuni versi usati come epigrafi sono per dir così la dichiarazione esplicita: una cifra visibile di un rapporto che è fatto, come accade sempre nella poesia, di dialoghi formali, di rispondenze, di riprese, di repliche.
E infine, la tradizione. Cosa saremmo senza la tradizione? Non saremmo nulla. Per questo (e perché di tradizione gastronomica, di maiali di polli e di tortellini, si è parlato assai nei giorni che sono appena passati, mi pare inevitabile suggerirvi di leggere il bellissimo apologo gastronomico che ha scritto Marco Manicardi (che è proprio emiliano, come i tortellini) a proposito dell’arrosto di maiale tradizionale della sua famiglia. Lo trovate qui, inizia così:
L’arrosto di maiale, tanti lo sanno fare bene, ma come lo faceva lei era buonissimo. Ma come mai il suo arrosto di maiale era così buono? Cos’aveva di tanto speciale? Era forse perché lei, prima di infornarlo, tagliava via gli estremi e poi lo metteva nella padella così, amputato? Qualcuno si fece coraggio, e le chiese come mai, prima di metterlo in forno, lei tagliasse gli estremi dell’arrosto, e se fosse quello lì il tocco speciale che rendeva il suo arrosto di maiale così buono rispetto a tutti gli altri.
2 Comments
ma a Bari non c’è la Sacra Corona Unita?
Ma sì, anche Catania e Roma non hanno senso in quell’elenco… Ma Cavazzoni è prima di tutto poeta, cui volentieri concediamo licenze (anche in fatto di criminalità organizzata)