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la ferita di ogni volta
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è questa la novità

Ogni tanto succede, quasi all’improvviso (ma poi passa, tranquillizzatevi, altrettanto all’improvviso). E la scuola, che in genere è relegata alla funzione di orpello di qualche disgraziata campagna elettorale o è oggetto di qualche improvvisata riforma a costo (economico) zero (perché i costi umani, vedrete, saranno invece alti assai…), la scuola, per una questione magari un po’ marginale, torna a essere al centro del dibattito pubblico per un giorno, per dodici tristissime ore, per centoventi miserandi minuti: insomma per lo spazio di tempo che la nostra capacità di concentrazione (tra un like e l’altro) è ancora in grado di concederci (saranno sei o sette minuti, quando i miei alunni avranno cinquant’anni; la concentrazione fa male alle campagne elettorali e alle tecniche di marketing, non so se ve ne siete accorti…).

 

E questa settimana si è quindi molto parlato di «cellulari in classe», confondendo un po’, a mio parere, il fatto che gli alunni possano cazzeggiare sui loro smartphone durante le lezioni di letteratura, con il fatto che le nuove tecnologie possano (sottolineo: possano) essere, in taluni casi (taluni) una risorsa per l’insegnamento. Io credo che possano esserlo, in effetti. E in effetti mi è pure capitato di usarli, gli smartphone, di farli usare, di consentirne l’uso finanche durante una verifica (era una verifica un po’ speciale, ovviamente; in cui l’uso degli smartphone non risolveva nessuno dei problemi presenti nella verifica, ovviamente). E le parole più sensate che ho trovato in rete sulla questione le ha scritte Massimo Mantellini, che di tecnologia a scuola si è già occupato in passato, e che ha scritto così:

 

… il punto rilevante resta uno solo e attiene alla strategia del nostro Paese sulle forme di educazione digitale da adottare (nella duplice accezione di didattica che si occupa di esplorare gli ambienti digitali e che utilizzi gli strumenti digitali per raccontare se stessa, sono due aspetti differenti e complementari).

 

E non ho nemmeno dimenticato l’incipit piuttosto folgorante di un articolo di Luca De Biase di qualche tempo fa, che di educazione digitale si occupava direttamente, non nascondendo (come non lo fa Mantellini) che si tratta di un nodo cruciale per l’educazione alla cultura (e alla concentrazione, appunto) delle generazioni presenti e di quelle future:

 

I figli di Steve Jobs non erano autorizzati a usare l’iPad. I figli di Bill Gates avevano accesso al personal computer in tempi contingentati. Evan Williams, fondatore di Blogger, Twitter e Medium, non dà il tablet ai figli. Secondo Adam Alter, quei grandi della tecnologia ne conoscono anche i difetti. I pericoli. Le piattaforme più popolari online sono progettate in modo da attirare l’attenzione delle persone per indurle a usare quegli strumenti il più possibile. Lo smartphone è la tecnologia persuasiva per eccellenza. Ormai la gente guarda lo schermo del telefono anche 150 volte al giorno, dicono da Facebook. È una dipendenza? La definizione di dipendenza è tutta da discutere in sedi più autorevoli di questa. Ma le tecnologie persuasive sono fatte in modo da creare aspettative di piacere quando ci si accinge a usarle. Le piattaforme sociali creano aspettative: gli utenti non vedono l’ora di sapere se hanno ottenuto qualche like, se ci sono commenti o condivisioni ai loro post, se gli hashtag che hanno lanciato sono diventati popolari… La formula vincente: sono facili da usare e intercettano le motivazioni degli utenti, creando occasioni specifiche per farsi usare in continuazione.

 

Insomma, ci sono modi seri per discutere di queste cose. E dunque, a proposito di serietà e di scuola, guardate un po’, anche in terribili tempi di iscrizione alle scuole superiori (clic qui, vi farà un po’ riflettere), cosa si può dire di poco serio e di serio sulla scuola, su un quotidiano importante o su una pagina web assai meno importante, usando l’autorevolezza della propria carica o usando soltanto quello di cui si è realmente competenti (sono due articoli, il secondo vi rimanderà al primo: non parlano solo di scuola, in effetti: parlano soprattutto di come venga fatta l’informazione sulla scuola… E chissà su quante altre cose…):

 

Che diritto ha una persona che dimostra di non sapere nulla di didattica della scrittura e di come si svolgano le prove scritte di italiano di scrivere una penoso pamphlettino in cui dimostra di essere non si sa se più ignorante del concreto funzionamento della scuola o più tumescente di ideologia e di disprezzo verso noi insegnanti? E perché ogni articolo e discussione pubblica sulla scuola abbandona sempre il terreno del confronto intellettuale, culturale, pedagogico intorno a problemi complessi, per innalzarsi (volevo dire: abbassarsi) a quello del conflitto epocale tra forze del Futuro e forze del Passato?

 

Ma le ventiquattro ore stanno già passando, consoliamoci. La scuola rimarrà ai margini dei nostri pensieri per altre settimane, chiusa in sé stessa, nel misero vortice delle battaglie all’ultimo sangue per avere un iscritto in più, senza poi avere nemmeno le aule in cui metterlo e le sedie su cui farlo sedere, quell’iscritto in più. E poi magari, la prossima estate, basterà un giovane atleta che si rifiuta di provare a prendere il diploma (preferisce Ibiza) a far scattare in noi il riflesso istericamente inutile del quanto la cultura sia importante e di come siamo caduti in basso e di quello che la scuola deve assolutamente fare prima che sia troppo tardi e della disciplina che ai miei tempi invece… Ma, caro amico ti scrivo, passerà anche quella polemica lì, qualche altra ora, qualche faccina, una battuta ben fatta, dopo la sosta ripartirà il campionato, pronti via.

Davide Profumo
Davide Profumo
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