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quella siepe

Stavo provando a tenere insieme due brevi post, stamattina, per costruire il mio assai meno utile (e nemmeno altrettanto breve…) post. Volevo parlare di questo bel libro che sto leggendo…

[leggendo non è però la parola giusta: lo sto aprendo, un po’ a caso, ogni volta cercando viaggiatori diversi e isole diverse, a volte sperando di trovare luoghi a me vicini, altre volte andando apposta il più lontano possibile, un po’ come se fosse un libro di poesie anche se non è affatto un libro di poesie, ma piuttosto, come si dice qui: «Un atlante smisurato di isole reali e immaginarie, scritto con velocità e leggerezza settecentesca», in cui è l’espressione «atlante smisurato» che mi ha sedotto, una specie di libro borgesiano che cresce ad ogni apertura casuale di pagine, in cui le isole si moltiplicano e le isolitudini (che bella parola! la inventò Bufalino proprio a proposito della mia Sicilia…) tutte le isolitudini si rispecchiano una nell’altra, come in un caleidoscopio inesauribile, e comunque non smettono prodigiosamente di essere tali]

…ma contemporaneamente volevo anche segnalare, in qualche modo, un recente articolo di Demetrio Paolin a proposito della tragedia e di come essa si riproponga ai nostri sguardi di uomini e di lettori nei tempi che viviamo, quelli della morte di Dio…

[le considerazioni che troverete non sono quelle di Paolin soltanto, in verità; lui infatti sta segnalando a sua volta un libro di Joyce Carol Oates e da questo testo prende spunto per scrivere alcune delle interessanti cose che scrive. Come questa, per esempio: «In un certo senso guardiamo una tragedia perché non ci riguarda ovvero perché non ci tocca personalmente, ci tocca ma in un modo che non appartiene alla nostra vita. Guardiamo i corpi cadere dal grattacielo, immaginiamo la scelta della loro caduta, perché noi non siamo lì in quel grattacielo; e perché l’osservazione di quell’accadimento produce una sorta di sentimento di benessere – siamo al sicuro – e di risentimento – vorremmo essere gli eroi di ciò che avviene»; o anche questa: «nel saggio della Oates, gli esseri umani continuano a cercare nell’arte e nella letteratura qualcosa come “il rovesciamento della nostra perdita ordinaria di passione, della nostra perdita costante di coscienza, la quale non è mai bella ma soltanto biologica”. La tragedia non deve presentarsi ai nostri occhi nelle forme e nei modi che siamo abituati»]

… e mi dibattevo in questa incertezza di un legame tra isolitudine e tragedia che non riuscivo a visualizzare, a concretizzare, quando mi è venuta in mente (finalmente) una siepe, quella siepe.

E mi sono fermato davanti al pensiero della siepe e ho capito che era quello l’oggetto che cercavo, quello che tiene insieme isolitudine e tragedia. La siepe di Giacomo Leopardi, in effetti, quello dell’Infinito, quello di Recanati, quello dei sovrumani silenzi, quello dei flash mob degli studenti in occasione del bicentenario dell’Infinito e dei sovrumani silenzi.

[Ecco, lo so che il mio parere non lo vorreste; e lo so che il mio parere è una cosa così noiosa che anche se aveste avuto la debole tentazione di volerlo già non lo volete più, vi capisco; e però il mio parere resta sempre quello: che i flash mob non servono a nulla, anzi fanno danni, sarebbe meglio evitarli, che assai più leopardiana è la noia delle aule scolastiche, altroché; e che l’infinito è il chiuso di una stanza in cui per caso apro un libro alla pagina dell’Infinito e miracolosamente mi fermo e ci trovo dentro l’infinito. Tutto il resto è show e must go on (lo sappiamo bene), ma con Leopardi non c’entra nulla, era questo il mio noiosissimo parere.]

E allora ho cercato (e ritrovato) un breve articolo in cui Gianni Celati nel 2004 diceva un paio di cose su Leopardi che mi sembrano azzeccate; e ho deciso che l’isolitudine (senza isola) di Leopardi e la tragedia (senza morte né suicidio) di Leopardi erano proprio quello di cui avevo bisogno oggi, nelle parole di Celati, che trovate qui, e che sono tante e che non andrebbero nemmeno citate, perché vanno lette dall’inizio alla fine, secondo me. Oppure potete accontentarvi di questo passaggio, che in qualche modo dice tutto:

La gente al giorno d’oggi crede che la letteratura, parlare o fare letteratura sia fare pubblicità a qualcosa. La letteratura è muta, non fa pubblicità a niente, non serve a niente, la letteratura ci riafferma questo niente che siamo.

Davide Profumo
Davide Profumo
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