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11 Giugno 2018È bello, esattamente bello, aver girovagato un po’ in rete, in questi pochi giorni di fine della scuola, e aver trovato tanti post da cui è facile imparare un po’ di più che cosa sia la letteratura. Perché, anche questo è esattamente bello, la letteratura è una di quelle cose belle che ogni giorno va imparata un po’ di più, va saputa un po’ di più, va definita un poco meglio.
Ecco allora che tornano utilissime alcune delle parole che Claudio Giunta ha detto sull’insegnamento della letteratura a scuola. Non che io sia d’accordo su tutto, francamente (però, altrettanto francamente: su quasi tutto, sì), ma ci sono passaggi per cui davvero avrei esultato, se fosse concesso di esultare davanti alle parole di un critico letterario (e chissà perché, ma non è concesso). Per esempio queste:
È vero: negli ultimi anni ci sono state delle deviazioni che hanno tradito, in parte, il compito della scuola. Si è trattato però del tentativo – giusto in linea di principio – di far rendere la macchina, e di valutarla. Questa smania di misurare e di valutare – di ridurre a tabella quello che non si può ridurre a tabella – corrisponde a uno Stato che vuole vedere come vengono investiti i soldi ma lo vuole vedere in maniera sbagliata, non selezionando i professori, bensì imprigionandoli in una gabbia di regole, che è il modo migliore per produrre dei criminali. La colpa di tutto questo è la stupidità, l’approssimazione, la secolare cialtroneria italiana, non il neoliberismo. Lo Stato dovrebbe lasciare piena libertà, invece il nostro è una simil-Unione Sovietica che diffida dei suoi impiegati, e perciò li perseguita.
Oppure qui:
Quand’ero adolescente, quello che mi serviva non era leggere Ariosto o Pirandello, ma incontrare persone colte, perché non le avevo in famiglia. A scuola ho incontrato persone laureate, colte, e alcune erano persone davvero eccellenti: ho capito che volevo diventare come loro, sapere quello che sapevano loro. La scuola è un luogo d’incontro tra un giovane e un adulto che sa di più e vuole il suo bene. A scuola si comunicano valori umani fondamentali, e questo avviene per contatto; la materia e il programma sono secondari. Se uno è cretino, può insegnare Foscolo o Moravia, ma farà danno in entrambi i casi; viceversa, se un insegnante è bravo, va bene tutto: è importante l’esempio, l’ispirazione che dai. “Ama e fa ciò che vuoi”, diceva Agostino; ed è giusto.
Ma la scuola è finita, avete ragione, ed è proprio il caso di lasciarla finire senza tormentarla troppo, almeno da parte nostra. E allora, vi racconto un’altra cosa bella: in rete sono stati resi disponibili circa la metà dei documenti che costituiscono l’archivio letterario di Gabriel García Márquez. Nel post che vi sto segnalando troverete anche il link utile a raggiungerlo, sfogliarlo, cercare di capirlo; riuscendo così, penso io, a comprendere un po’ di più cosa sia la letteratura. E a me è per esempio già bastato questo passo, scritto da Álvaro Santana-Acuña, per mettere a fuoco alcune cose che forse pensavo ma non sapevo di pensare:
Si racconta che, dopo che gli venne in mente l’incipit di Cent’anni di solitudine, mentre guidava tra Città del Messico e Acapulco, l’autore lasciò improvvisamente il lavoro e si chiuse per diciotto mesi nel suo studio a scrivere, fino a quando non finì il romanzo. Nel frattempo la moglie si indebitò con i negozianti del quartiere per sostenere la famiglia. L’archivio rivela invece che ottenne un prestito per dedicarsi unicamente al romanzo e che non lo scrisse tutto d’un fiato, in un anno e mezzo, ma in dodici mesi inframmezzati da pause. Non scrisse della solitudine in solitudine, ma in mezzo alla gente. Mentre scriveva il libro che lo rese famoso, García Márquez si circondò di amici e colleghi. Alcuni lo aiutarono come assistenti nelle ricerche su numerosi temi, per esempio le tecniche alchemiche utilizzate da José Arcadio Buendía, le proprietà curative delle piante che usava Úrsula Iguarán e la storia delle varie guerre in Colombia e America Latina menzionate nelle avventure del colonnello Aureliano Buendía. Il manoscritto di Cent’anni di solitudine è stato a lungo commentato, revisionato e perfezionato prima della pubblicazione. Quasi ogni sera, a casa di García Márquez e consorte si riunivano il poeta Álvaro Mutis con la compagna e la coppia formata dell’attrice María Luisa Elío e dal regista Jomi García Ascot (a loro, così provvidenziali, fu dedicato il romanzo). García Márquez leggeva ad alta voce o gli parlava di quello che aveva scritto quel giorno e tutti gli davano idee su come poteva andare avanti la storia dei Buendía.
E ci sarebbero anche altri dettagli di questo post su Márquez che andrebbero senz’altro evidenziati. Ma mi tocca tacerli, perché c’è Andrea Inglese, autore di un quasi romanzo che mi piacque molto un paio di anni fa, che racconta del suo essere poeta e lo fa con una grazia tale da non poter esssere trascurato della nostra attenzione. E anche lui, sebbene con altri toni, ci fa capire meglio quello che pensiamo quando apriamo un libro e speriamo che sia importante:
Quando da adolescente ho cominciato a scrivere poesie, della poesia propriamente detta sapevo poco o niente, ma del poeta credevo di aver capito qualcosa d’importante: era un nemico dell’ordine costituito, era in grado di scavare dentro di sé in modo forsennato, era capace di vivere diversamente dalla maggioranza delle persone. Si potrebbe pensare che ciò non fosse altro che il residuo del mito romantico, ottocentesco, del poeta, mito che il Novecento avrebbe dovuto spazzar via come un’anticaglia. Che si tratti di un mito, è fuori di dubbio, ma di un mito ancora attivo in forme e versioni diverse lungo tutto il Novecento, passato ovviamente anche attraverso avanguardie e neoavanguardie. Pur con tutte le revisioni del caso, e soprattutto dopo averlo svuotato di enfasi, questo mito è per me irrinunciabile, qualcosa di esso, almeno, vorrei conservarlo nella mia scrittura poetica, e soprattutto nel mio modo di connettere scrittura e vita.
Ed eccoci alla fine, insomma. Io non so se anche a voi, come a me, è successa la cosa bella di aver capito un po’ di più cosa sia la letteratura, grazie alla parole di questi post. Spero di sì. Oppure spero di no, perché le sapevate già tutte, queste cose belle, non ne avevate bisogno, ero io che me le ero colpevolmente dimenticate… È possibile. Ma anche se così fosse, non riesco a credere che potete fare a meno di quest’ultima cosa bella che vi sto segnalando, una poesia di Rilke, presentata da Roberto Mussapi, che ci parla di Orfeo. Ecco, è un incrocio di voci splendide, quest’ultimo ed è al loro incanto che volentieri vi lascio, per chiudere. Lo trovate qui, inizia così:
Esistono divinità greche, la maggior parte, che vivono ancora nell’arte, nell’archeologia, nel pensiero e nella storia delle religioni. Solo lì. Quasi tutte: chi pregherebbe seriamente, oggi, Zeus, o farebbe voti a Atena? Ma due di queste divinità sopravvivono, ancora divinamente, Dioniso esiste ancora, è una parte di noi, pulsa nascosto nei cespugli, nelle torsioni della vite, nell’estasi poetica e teatrale, nell’uscita di sé che rammemora, ciò che Dino Campana e poi Luzi definirono “il ricordo che non ricorda”. E poi Orfeo, a Dioniso congiunto, e che non è la pura esecuzione poetica, non è soltanto l’esito, anche se di esiti straordinari è intessuta la sua esistenza. È l’anima stessa della poesia.