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quattro grandi scrittori, un fallimento

Il primo desiderio che ho avuto oggi, dopo aver letto alcune delle parole scritte e pubblicate sul web italiano, è stato sinceramente quello di uscire di casa, prendere un po’ dell’aria del crepuscolo siciliano e non scrivere proprio niente. Perché troppi sono gli spunti, troppe le parole che meriterebbero di essere ricordate, troppi i grandi poeti di cui si parla oggi sul web, troppo belle le loro opere per poterne scegliere una ed escludere le altre. Io, mi sono detto, non ne sono capace.

 

Poi ho pensato che magari, con un po’ di fatica e immaginazione, avrei però potuto trovare un filo conduttore, qualcosa che tenesse insieme tutti questi post e questi libri e questi scrittori e poeti, qualcosa che come il filo di una lama li potesse far comminare uno in fila all’altro, come equilibristi sul tenuissimo filo di uno dei miei ben poco utili post. E quindi ci ho provato.

 

Ma, come state intuendo forse in questi istanti, non ci sono riuscito. E allora ho deciso che, vabbè, si può fallire in molti modi e che potevo scegliere almeno quello più fruttuoso, se non altro per voi, che mi pare questo. Proporvi i post più belli e gli autori più grandi, che sono quattro, e lasciare a voi il compito di decidere se ci sia, quel filo tenuissimo che li tiene insieme, come vecchi equilibristi sulla lama precaria di questo post, o non ci sia. Ed ecco gli scrittori, quindi.

 

Il primo è Dante, quasi ovviamente. Raccontato però attraverso la cultura giuridica del suo tempo, in un libro che si annuncia straordinario e molto originale, forse anche importante per rileggere, ancora una volta, la Commedia e capirci, ancora una volta, qualcosa di più. Se ne parla in questo post, ove si legge anche così:

 

Nella concezione dantesca della giustizia divina i casi limite svolgono un ruolo centrale. Può sembrare paradossale, ma se Dante crea un’elaborata geografia normativa è proprio perché vuole esplorarne le eccezioni. Le regole del gioco vengono velocemente assimilate dai lettori, per essere poi altrettanto velocemente infrante: i pagani sono salvati, i dannati compatiti, i giuramenti infranti, le condanne ridefinite. Lo stesso racconto del viaggio può essere considerato un’eccezione, il privilegio personale accordato a Dante di attraversare l’altro mondo, rimanendo tuttavia immune dalle leggi che egli stesso ha ideato. Così come oggi analizziamo le opere d’arte del passato tenendo in considerazione l’immaginario estetico del tempo, allo stesso modo dovremmo storicizzare anche i riflessi condizionati che l’opera di Dante provocava nei lettori della sua epoca, soprattutto in materia di norme ed eccezioni. Prima che l’autorità legislativa venisse concentrata nel moderno Stato centralizzato, la possibilità di sospendere una certa norma, o meglio di derogarvi, era considerata organica al sistema giuridico.

 

Il secondo è Franz Kafka. Addirittura paragonato ad Andy Wahrol (ci si chiede come sarebbe potuto andare un incontro tra i due, e se sarebbero riusciti nell’impresa di riconoscersi come esseri appartenenti alla stessa specie…) e riletto attraverso alcuni frammenti di una vita complicata, la sua. Ed è un pezzo di rara intensità, quello che vi propongo, che racconta anche questo episodio:

 

Dora Diamant, l’ultima fidanzata dello scrittore, ricorda dei tempi berlinesi e di un Kafka che per consolare una bambina incontrata al parco, le scrive ogni giorno una lettera fingendo di essere la sua bambola scomparsa: voleva insegnarle cos’è la perdita, com’è che si lasciano andare le persone – lui sarebbe morto l’anno successivo al fianco di Diamant, stremato dalla malattia al punto di non riuscire a concludere un’ultima lettera per i genitori; aveva insistito perché non andassero alla casa di cura dov’era ricoverato, perché non c’era bisogno di prendersi quel disturbo, che ci sarebbero stati giorni migliori. Si sbagliava o, forse, voleva risparmiare a tutti una pena: aveva già redatto due testamenti un paio di anni prima della morte, chiedendo, si sa, a Max Brod di bruciare tutti i suoi scritti ancora esistenti. Brod, e si sa anche questo, non avrebbe mai esaudito il suo desiderio: la disobbedienza più dolce di tutte.

 

Poi c’è Baldassar Castiglione, uno dei massimi (e massimamente bistrattati) scrittori del nostro Rinascimento. E insieme a lui c’è Raffaello, c’è Roma e c’è la nostra un po’ traballante idea di cultura e di tradizione. Ne ha scritto Tomaso Montanari e mi piace riportare qui questo passaggio:

 

Questa coppia di amici intellettuali (per sempre rappresentata dal ritratto strepitosamente vivo che Raffaello dipinse a Baldassarre) seppe esprimere perfettamente ciò che oggi proviamo di fronte al nostro patrimonio culturale in rovina: «grandissimo piacere, per la cognizione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria». Le rovine di Roma non suscitano riflessioni estetiche, ma politiche: il disfacimento dell’eredità classica è la morte della patria.

 

E infine (ultimo soltanto perché per ultimo ho letto il post in cui di lui si parla, non certo per graduatoria) c’è Bertolt Brecht. E c’è il racconto commosso della sua casa berlinese, dove non sono mai stato e dove già ho voglia di andare, al più presto. Non siate stanchi, se potete, e provate a vedere se questo post è in grado di darvi lo stesso piacere che ha dato a me e la stessa voglia di salire su un aereo, direzione Germania:

 

La casa diventa teatro, prima e dopo la morte. La casa è allora teatro per sempre. E anzi un teatro più vero: la morte dell’autore gli attribuisce un insuperabile sigillo di autenticità. È un teatro che si evoca per l’eternità, proprio a partire da ciò che gli manca e che è, al tempo stesso, onnipresente attraverso il nome del suo autore, evocato a ogni passo. Questa casa non per caso si chiama oggi Brecht-Haus: è un nome divenuto dimora, ma è anche una dimora nella quale non vive più nessuno. Solo i ricordi vi trovano alloggio, solo loro ne hanno il diritto. La casa non esiste per essere abitata, ma per assumere la funzione di rappresentare l’uomo la cui memoria pubblica s’incarna nelle stanze aperte al visitatore. Se una dimora mantiene suo malgrado l’impronta di chi ci ha vissuto, qui ci aggiriamo tra librerie intoccabili e poltrone su cui non ci si può sedere. È solo in forza dell’inabitabilità che può contenere ora i suoi fantasmi. Per uno strano paradosso è l’inaccessibilità che diventa il segno più certo della presenza del grand’uomo, là accanto a noi visitatori.

 

E adesso quindi, consapevole di aver fallito nel modo che mi pareva migliore, posso esaudire il mio desiderio, senza troppi sensi di colpa. Ed esco a fare due passi nel crepuscolo siciliano (ormai, a dire il vero, fattosi già notte, che peccato).

Davide Profumo
Davide Profumo
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