dentro una finzione
8 Dicembre 2016Agostino d’Ippona (354-430 d.C.)
12 Dicembre 2016È quasi a sfidare la pazienza dei miei già pochissimi lettori che mi prendo questa domenica mattina prenatalizia e la dedico alla poesia. È quasi a ripetermi che io non ho molto altro di cui parlare, nemmeno nei giorni migliori. Ed è quasi a dire che sì, è tutto vero, la poesia non esiste più, non si legge più, non si scrive e non si racconta più, soprattutto non nelle forme in cui l’abbiamo studiata e letta tanti anni fa, quando ancora pensavamo…
Non lo so cosa pensavamo, in realtà. Tanto tempo è passato che nemmeno me lo ricordo. Però mi prendo lo stesso questa domenica mattina a dirvi che oggi ho letto i versi di un poeta italiano morto trent’anni fa e che li ho trovati bellissimi. E io nemmeno sapevo che questo poeta era un poeta e che aveva scritto versi e che era morto così giovane. Nemmeno io, che qualche poesia ogni tanto mi sforzo di leggerla. Si chiamava Beppe Salvia e scrisse così, nel 1986, mentre io stavo per la prima volta scappando da casa mia:
I miei malanni si sono acquietati,
e ho trovato un lavoro. Sono meno
ansioso e più bello, e ho fortuna.
È primavera ormai e passo il tempo
libero a girare per strada. Guardo
chi non conobbe il dolore e ricordo
i giorni perduti. Perdo il mio tempo
con gli amici e soffro ancora un poco
per la mia solitudine.
Ora ho tempo per leggere per scrivere
e forse faccio un viaggio, e forse no.
Sono felice e triste. Sono distratto
e vagando m’accorgo di che è perduto.
Se vi fosse piaciuta la poesia, trovate quello che c’è da sapere su Salvia in questo bel post, che riporta anche altre sue idee, e un suo malinconico ritratto. Ma se davvero vi fosse piaciuta questa poesia, non fermatevi, in questa domenica mattina, secondo me. Ci sono due poeti siriani, di cui si parla su «Internazionale». E parlare di poesie oggi mentre si parla anche di Siria è una bella sfida, vale davvero la pena di proporla, di non accontentarsi, di provarci. Anche se ben sappiamo che sarà inutile.
E poi c’è il poemetto di Peter Handke, ci sono le sue riflessioni su attimo e durata, con gli inevitabili rimandi a Shakespeare, Goethe e Mario Luzi, ma anche a Montale, se mi permettete di aggiungere qualcosa. E ci sono versi bellissimi anche in questo post su Handke. In cui a un certo punto si arriva davvero vicini, secondo me, a cogliere una delle proteiformi essenze dello scrivere versi, quella cosa che abbiamo rinunciato a fare, perché tanto tempo fa abbiamo anche smesso di leggerli, e va bene lo stesso. Il passo, a mio parere, è questo:
… il Canto della durata di Peter Handke è un libro di poesia molto importante. Innanzitutto per la sua natura di poemetto, in cui la durata è realtà costitutiva. Inoltre perché propone in forma affascinante il rapporto tra poesia e essere, in una tesa, vibrante ricerca del senso ultimo del tempo. «La mia pena è durare oltre quest’attimo»: il leggendario verso di Mario Luzi coglie l’eternità fissata in un istante e di colpo fatta perenne: dilatazione del presente, l’opposto di una fuga dal presente che nella poesia sarebbe rinuncia o scacco. Quando Handke scrive che quel giorno, provando una sensazione di pienezza capiva «che al miracolo mancava la durata», non manifesta una visione opposta: in poesia il principio aristotelico dio non contraddizione non esiste. È alchemica la logica del poeta. Un miracolo senza durata è simile all’illusione…
E vi lascio a questi puntini di sospensione, insomma. Magari avrete qualche verso da leggere tra i libri della vostra personale biblioteca, non lo so. Magari oggi ne leggerete qualcuno, che non avevate mai letto o che non vi eravate mai dimenticati, senza saperlo. Certe cose non durano che nella cenere, diceva un poeta una volta. E anche la poesia, se non mi sbaglio.