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poeti e profezie

Scriviamo di noi e, scrivendo, riflettiamo sulle parole che usiamo per scrivere di noi. Tanto che, dovremo confessarlo, non scriviamo davvero di noi ma sempre e solo delle parole che cerchiamo e (a volte) troviamo per parlare e che, come specchi, ci riflettono.

Ma le parole hanno un attrito, una resistenza. Ed è stato per me molto bello oggi avere l’occasione di ricordare un poeta che ho dimenticato, Leonardo Sinisgalli, e una sua lettera a Gianfranco Contini in cui la riflessione sulla parola poetica riesce a dire la differenza, lo scarto tra cose e parole che è (forse) la nostra unica possibile piccola porzione di verità. Lo spiega bene l’autore del post, Marco Fulvio Barozzi:

la parola poetica acquista direzione vettoriale rispetto al flusso puramente rettilineo e referenziale del linguaggio, agendo sulla cosa descritta in senso straniante.

Ma io credo che una lettura completa del post (lo trovate qui) sia più utile di ogni mia superficiale parola, perché breve ed efficacissimo.

Così come efficace (e straordinariamente centrato, secondo me) è l’articolo che ha scritto Marco Belpoliti a proposito delle parole di Greta Thunberg, dell’altro ieri. Le quali parole mi avevano messo un po’ a disagio (lo confesso) finché non ho letto questo articolo (che trovate qui) e forse ho capito il mio disagio (e un po’ anche quelle parole). Belpoliti dice così:

Greta Thunberg ha parlato come un profeta biblico, uno che è stato chiamato a fare qualcosa che probabilmente non vorrebbe fare, e che è costretto invece a compiere: “Io non dovrei essere qui”. Come Giona, il profeta che Dio manda a Ninive per predicare agli abitanti che se non si convertiranno la città sarà distrutta. Lui non vuole andare, scappa, e finisce nel ventre della balena, per cui verrà risputato sulla spiaggia… Nelle parole di Greta risuona un tono sacro, il suo dire e il suo detto appartengono a una sfera che è sempre più raro percepire in un mondo che si è totalmente desacralizzato, secolarizzato, che non possiede più nulla di religioso, almeno a livello collettivo. Ci voleva probabilmente una ragazzina che soffre di una sindrome autistica, una “diversa”, qualcuno che sino a qualche decennio era una “esclusa”, per fare un discorso così carico di sacralità… Forse ci voleva proprio una persona “altra” come lei, per accedere a questo linguaggio, là dove i linguaggi “normali” sono tutti appiattiti sul conformismo più ripetitivo.

Ecco, credo di avere capito, finalmente. Mi sono trovato di fronte a un linguaggio “diverso”, che mi ha turbato. Eppure, se ci penso, questo turbamento è la mia verità, o almeno il mio passo incerto verso una possibile traccia della verità. Questo fa la parola quando non sia “normale”, quando sia ricerca di sé e dei propri pezzi, quando sia specchio. Questo mi ha fatto l’altro giorno, nel disagio infastidito che ho provato. (E forse, non so, lo avete provato anche voi.)

E infine, quindi, la poesia, quella vera; e cioè il luogo in cui la parola ritrova la sua deviazione dalla realtà e quindi la sua forza. Oggi ho letto alcune poesie di Matteo Ferretti (non sapevo chi fosse, prima di leggerle) e le ho trovate molto belle, fortissime. Ne lascio una qui sotto, ma ne trovate altre qui di fianco, se vi piacesse E poi c’è il suo libro, uscito per il solito piccolo editore di poesia; a volte, senza preavviso, si compie il miracolo e scopriamo un poeta. Magari è oggi.

Quando esce il sole improvvisamente

nulla più è adeguato. Certi vestiti

come certi pensieri si allargano

nel vento, nell’affacciarsi di una luce,

bianchi e smessi, delicati

come buste di plastica, sospesi.

E ti senti così vecchio se eri giovane

e cercavi la tua solitudine.

E ti senti così giovane se eri vecchio

e ti ricordi all’improvviso

che l’amore è tutto contenuto nel sole;

in questa docile sua furia

di farci vivere ancora

e ancora.

Davide Profumo
Davide Profumo
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