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il peso della treccia

 

Chissà quanti di voi hanno presente la storiella ittica con cui David Foster Wallace iniziava il suo discorso per la cerimonia di consegna dei diplomi del Kenyon College: «Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”»

 

Ecco, il libro che più di ogni altro, in questi ultimi mesi, mi ha fatto sentire (quasi come se fosse una piccola rivelazione) in procinto di capire quale fosse la temperatura dell’acqua (non abbastanza fresca) in cui nuoto da tutta la vita, l’ho letto negli ultimi giorni: si intitola Realismo capitalista ed è stato scritto da Mark Fisher, nato nel 1968 e morto suicida l’anno scorso, nel 2017. Non è un libro appena pubblicato. Mark Fisher,  un intellettuale il cui percorso non ha nulla di regolare, lo ha scritto nel 2009. Ma è stato tradotto in Italia soltanto da poche settimane e lo ha pubblicato una piccola casa editrice, che si chiama Nero. È un libro che mi è piaciuto molto, che mi ha fornito alcune risposte e che mi ha posto moltissime domande, a cui ovviamente non so come rispondere. Non mi ha fatto capire com’è l’acqua in cui nuoto, non del tutto: ma mi ha offerto alcuni dati e alcune idee in più, forse qualche strumento per misurarne meglio la temperatura e il grado di inquinamento.

 

Ne ho già ripetutamente parlato con molti amici, in questi giorni. Oggi ne scrivo finalmente qui perché ho trovato una recensione on line che mi è piaciuta e mi pare in qualche modo bello che un libro così interessante sia presentato come si deve, da qualcuno assai più capace di me. La recensione, che trovate qui, scrive per esempio così:

 

La tesi fondamentale del libro è che l’espressione “realismo capitalista” è un buon modo di definire l’acqua in cui nuotano i nostri tempi, o come scrive lo stesso Fisher, la loro “atmosfera”. Mascherato da prassi operativa post-ideologica e puramente funzionale, secondo Fisher, il tardo-capitalismo è invece a tutti gli effetti un’ideologia a cui ci siamo assuefatti in nome appunto di un principio di realismo “più realista del re”. Con l’assuefazione è calata anche una rassegnazione tale per cui – come scrive anche Valerio Mattioli nella sua introduzione al testo – il “there’s no alternative” di tatcheriana memoria è stato introiettato così profondamente nell’inconscio delle società occidentali da diventare una specie di tara cognitiva, una sorta di Velo di Maya che ha mascherato come “fatto naturale” qualcosa che di “naturale” non aveva davvero molto: ovvero la resa incondizionata della politica di fronte agli imperativi logico-operativi del capitalismo, avvenuta dagli anni ’80 in poi.

 

Oppure anche così:

 

Quello che fa di Fisher un intellettuale in grado di aggiungere qualcosa rispetto alla tradizione post-strutturalista da cui si eleva, è la sua capacità di cogliere i sintomi della sindrome da “realismo capitalista” in molteplici direzioni. La rileva nella diffusione di disturbi psichiatrici tra i giovanissimi; la nota nell’introduzione di un approccio para-cibernetico nel rapporto tra studenti e insegnanti all’interno del sistema educativo anglosassone; nella mitopoiesi di un “homo novus reaganianus” tracciata dal cinema e dalla letteratura noir americana a partire sempre dagli anni ’80; nella schizofrenia latente al rapporto tra i valori “slow” che il tardo-capitalismo sostiene di voler tutelare e anzi alimentare – in primis quelli della “famiglia” – e le prassi “smart” con cui in realtà li mina alle fondamenta…

 

E insomma, sono contento di aver trovato oggi questa recensione (diversi giorni dopo aver finito di leggere il libro) perché mi pare che parli anche un po’ della strada che il paese ha preso negli ultimi giorni, del tentativo di cambiare e forse di capirsi che molti elettori hanno manifestato con le scelte che hanno fatto e che mi sembrano così poco decifrabili. Ma non ne potete più di elettori, avete ragione. E magari vi state anche chiedendo cosa c’entri con tutto questo il titolo che ho dato al post, avete ragione. Non c’entra niente, in effetti. Perché c’entra invece con il link seguente, che è quello che mi tengo stretto da due giorni perché mi pare bellissimo e ingenuo e insostituibile. Insomma, il libro di Fischer è un libro importante e pone domande essenziali; e la sua recensione vale una lettura attenta e completa. Ma poi c’è la poesia, lo sapete; la quale, chissà perché, mi dà sempre l’impressione di arrivare più in là, anche quando parla di niente, di un passo leggero, di una bambina, di una treccia. La poesia è di Camillo Sbarbaro. Dice, mi pare, della nostra felicità. Che forse è esistita, che forse abbiamo perduta, che forse non ritroveremo mai, che forse abbiamo già ritrovato in questi versi (grazie a Roberto Mussapi che li ha riproposti):

La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada, ché non sa
che mai bene più grande non avrà
Di quel po’ d’oro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola.
 
A noi che non abbiamo
altra felicità che di parole,
e non l’acceso fiocco e non la molta
speranza che fa grosso a quella il cuore,
se non è troppo chiedere, sia tolta
prima la vita di quel solo bene.
 

Davide Profumo
Davide Profumo
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2 Comments

  1. ,mau. ha detto:

    (non c’entra, ma lasciatemi essere leggero per una volta). Qui in Italia il libretto è stato pubblicato da Nero: negli USA l’editore era Zero. Ho trovato buffo questo cambio di lettera)

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