Se oggi avete voglia di leggere un’intervista a uno scrittore bravo, sono qui, ho quello che fa per voi: perché è molto bella l’intervista che Andrea Pomella ha lasciato al blog «Giudittalegge», illumina angoli di un libro (il suo libro) che se non avete ancora letto potete pensare sul serio di leggere, perché ne vale la pena. E magari saranno queste parole del suo autore a farvene venire la voglia:
Ma la storia che racconto è la storia di un figlio che impone una legge al padre, la legge del distacco, una legge contronatura che avrà per entrambi delle conseguenze nefaste. Ci sono anche momenti in cui il figlio del figlio, a sua volta, si prende cura del genitore, e lo fa quando lo vede distrutto dalla malattia psichica e incapace di muovere un muscolo, allora lo accudisce a modo suo, giocando su di lui con le minifigure Lego. Il rovesciamento dei ruoli in questa storia eterna del padre e del figlio è la cosa che più mi premeva mettere a fuoco.
Se invece è di una bella recensione che avete desiderio, ecco, sono sempre qui, ho anche questa volta quella che fa per voi. L’ha scritta Gianluigi Simonetti e si occupa di un altro libro tra i migliori che si possano leggere in questi mesi di inverno. Ed è anche più che una recensione, probabilmente, è già un piccolo tentativo di proporre un canone, di intravvedere un ordine o un disegno o una semplice possibile traccia per comprendere la direzione verso cui guarda la letteratura italiana in questi anni. Potete leggere queste parole, per esempio:
Arriviamo così alla scissione di fondo, nascosta nel cuore di un libro in apparenza compatto e uniforme. Un’opera che celebra l’autonomia perduta della letteratura elude con cura ogni cornice testuale autonoma per muoversi nei territori torbidi e eteronomi delle cosiddette scritture di frontiera. E ancora: una memoria personale scrupolosa, che allinea personaggi e aneddoti reali, produce l’elogio malinconico di una vita ridotta a vano sogno (sognato, per giunta, da un altro). Ma qui sta il bello.
Ma forse avete voglia soltanto di poche righe, di uno spunto, di un accenno a qualcosa che possa dirvi chi siete, come state, in questo momento cosa state facendo, e perché. Se è di questo che avete desiderio, oggi, vi state sentendo come me. Non so se è un bene per voi, per me lo è: sono contento di non essere solo. E, se è davvero così che vi sentite (con questa strana curiosità di guardarvi per un attimo da fuori, un po’ stanchi, un po’ malridotti, un po’ ai margini del mondo, ma ancora reattivi però, con alcune cose ancora da dire, mica proprio da buttare), ecco, forse un pochino posso esservi utile, anche questa volta. O meglio, posso semplicemente indicarvi le parole che hanno aiutato me, a capire. Come provo a fare da mesi, in effetti, e sempre con le parole degli altri, migliori delle mie. E alcune parole oggi le ho trovate qui, sono queste:
Abbiamo a casa un’ospite. E’ arrivata qualche giorno fa, ripartirà tra qualche giorno. C’è stata un po’ di preparazione, fare spazio in un armadio, spostare un letto, cose così. Niente di particolare, avessi scattato quattro foto dieci giorni fa e le scattassi oggi non si noterebbero differenze – o quasi, ok. Eppure, solo per il fatto che è arrivato qualcuno è proprio cambiato lo sguardo; la stessa cosa la vediamo in modo diverso. Anzi, in molti casi la vediamo, mentre prima non ci facevamo caso. Quel mucchietto di carte sopra il forno a microonde. Quella piccola crepa per una vecchia infiltrazione. La posizione degli accappatoi in bagno. Gli otto libri appoggiati in attesa di rimettere mano a tutta la parete. La punta di un coltello. Siamo a casa nostra e la guardiamo con gli occhi di un’altra persona, così come facciamo quando per una volta non attraversiamo la piazza guardando lo schermo del telefono come tutte le mattine ma ci fermiamo davanti al Duomo e lo guardiamo indicando alla persona che stiamo accompagnando quella guglia o quel pezzo del portone di sinistra. Dovremmo avere un’ospite almeno una volta all’anno, per vedere chi siamo.